Aprendo il dizionario di
Italiano leggo: endorfina: peptide
presente nel cervello, in grado di innalzare la soglia del dolore,
con effetti simili a quelli della morfina.
Quindi un effetto droga, ma con l’indubbio vantaggio di non indurre
effetti collaterali!Cosa può stimolare le endorfine? Molte
cose e fra queste si dice l’assunzione di cioccolata, ma io penso:
anche accarezzare il proprio gatto che fa le fusa! Sì sono due
fattori che senz’altro hanno a che fare con questo peptide! Ma
riflettendoci, vi sono altre situazioni che provocano questo stato di
felicità ed una fra queste è senz’altro la realizzazione, anche
se parziale, di un proprio desiderio! Sì, è senz’altro così. Io
ho tutti gli elementi per drogarmi in modo sano: cioccolata, di cui
sono molto goloso, gatti, due, maschio e femmina, meravigliosi e la
mia piccola collezione di macchine fotografiche. Sento improvvisamente il forte
desiderio di immergermi in questa felicità e di produrmi
un’overdose. Prendo in braccio il gatto più accondiscendente,
tanto per intenderci, quello che come lo tocchi accende
immediatamente il motore e produce fusa a dismisura: Philo il maschio
o meglio l’ex maschio; mi prendo una tavoletta di cioccolato
fondente e mi seggo comodamente sul divano della tavernetta.
Accarezzando il gatto, comincio a far sciogliere fra lingua e palato la cioccolata seduto
davanti alla mia piccola vetrina di macchine fotografiche o
fotocamere come le volete chiamare. Il cioccolato si scioglie
lentamente in bocca, il gatto sta iniziando il suo concerto: prrr!
prrr, prrr…. ed io comincio a sentirmi molto bene: l’endorfina
sta producendo i primi effetti. Osservo attentamente i miei
apparecchi fotografici e penso: sono occorsi
più di trent’anni per raccoglierli e non riuscirò mai a
completare la mia collezione! Ma perché,
sono preso sempre dall’impulso irrefrenabile di acquistare una
fotocamera? La risposta è che quando prendo in mano uno di questi
oggetti, succede un fatto strano: si stabilisce un contatto quasi
misterioso con l’oggetto che mi induce a conoscerne le origini.
Ritengo che l’invenzione di questo meraviglioso strumento di
precisione rappresenti una pagina miliare della storia dell’Uomo:
l’ingegnosa sintesi fra osservazione, manualità, fisica, chimica e
meccanica; uno stupendo compendio di conoscenza! Sono molto sensibile a tutto ciò che
rappresenta conoscenza; in tutti i campi, ma particolarmente in
questo che rappresenta la mia passione principale. Come dicevo,
prendendo in mano una macchina fotografica, si stabilisce un
misterioso contatto. Mi appare ogni particolare riguardo alla sua
costruzione. Se poi le fotocamere sono molto vecchie, vedo all’opera
le mani ed il volto di coloro che l’hanno ideate quasi come se, per
assurdo, i creatori di questi oggetti le avessero toccate per
verificarne il funzionamento ed io colgo in esse la presenza dei loro
costruttori. Ma la sensazione è passiva come quella di uno
spettatore, riesco a vedere ciò che fanno, ciò che dicono e riesco
anche ad intuire il loro pensiero riguardante il prodotto in
costruzione ed il loro modo di porsi le domande. Ho la sensazione di
persone che ho sempre conosciuto, quasi di famiglia, pur restando
sempre all’esterno del loro operato. Sarà perché leggendo le loro
storie, sono rimasto molto colpito dallo spirito che li animava.
Considerando per molti di essi l’ambiente in cui lavoravano: niente
corrente elettrica, niente acqua corrente etc., non si può fare a
meno di considerarli degli uomini straordinari. Non si può non farsi prendere dalla
tristezza quando si immaginano i sacrifici e la dedizione di
Nicèphore Niépce, che non ha raccolto nulla dalle sue importanti
ricerche! Come si può non rimanere impressionati da un uomo come
George Eastmann che si lancia in un’impresa avventurosa, con la
determinazione di poterla realizzare ed una volta raggiunti i propri
scopi e fra questi un grande impero industriale e commerciale, decide
di uscire di scena considerandosi appagato. Non è possibile essere
pervasi da un profondo senso di ammirazione per Ernst Abbe, per
me un idolo, che con una visione veramente
avveniristica per l’epoca, pone le fondamenta di una delle più
importanti aziende fotografiche mai esistite. Non si può neppure
restare insensibili di fronte ad un’esile figura come quella di
Oskar Barnack i cui pensieri e la cui dedizione sono sempre rivolti a
facilitare l’uso delle macchine fotografiche. Possiamo forse
ignorare la passione di Stenbergen che non esita a trasferirsi in
un’altra nazione per realizzare i propri progetti anche se, per
questioni razziali, questo gli comportò parecchi problemi? Penso che avvicinandoci un pochino a
questi personaggi, i più famosi, oggi, in campo fotografico, veniamo
indirettamente a conoscenza anche di tutti coloro che hanno preso
parte a questa meravigliosa avventura. Il mondo della fotografia spazia nei
più disparati campi; man mano che nasce e si perfeziona la tecnica
fotografica ci si accorge che la fotografia non è solo un
divertimento, ma può essere uno strumento di ricerca, un mezzo di
lavoro. Uno strumento forse un poco sottovalutato dai non addetti ai
lavori e da molti considerato come uno dei tanti elettrodomestici
usati dall’uomo. Ma abbiamo mai pensato cosa dovremmo cancellare
dalla nostra vita se non avessimo a disposizione la scienza della
fotografia? Tutto ciò di cui noi oggi possiamo fruire è merito non
tanto del progresso tecnico-industriale, quanto delle ricerche e
degli studi che si conducono nei laboratori delle università, nelle
industrie e grazie all’impiego della fotografia (fotomicrografia,
fotografia ultrarapida, micrografia elettronica, spettroscopia,
ecc.). La fotografia trova moltissime applicazioni nel campo
professionale ed industriale, nella stampa e nelle arti grafiche. La
radiografia sin dalla scoperta dei raggi X da parte di W.C. Roentgen
nel 1895, ha fatto passi da gigante ed oggi viene impiegata non solo
negli ospedali e nelle cliniche, ma anche nell’industria, nei
musei, ecc. La fotografia e la cinematografia sono
preziosi strumenti didattici e gli studenti hanno acquistato un nuovo
e piacevole modo di apprendere. La ripresa fotografica aerea è
utilizzata per scopo meteorologico, militare, cartografico,
archeologico, agricolo, urbanistico. Materiali fotografici speciali
registrano fedelmente ogni tappa dei viaggi pionieristici nello
spazio e sulla Luna. Tutte queste ed altre applicazioni
della fotografia evidentemente hanno richiesto e richiedono materiali
sempre più sensibili, più rapidi, sistemi sempre più perfetti. Se abbiamo raggiunto simili traguardi
lo dobbiamo alla lunga schiera di pionieri e ricercatori, dilettanti
o meno. Ci sono stati pittori, scultori, musicisti, uomini di chiesa
divenuti figure leggendarie nella storia della fotografia o rimasti
nella completa oscurità. Acquistare una vecchia fotocamera
significa rendere omaggio a tutti coloro che si sono dedicati
alla scoperta di questo meraviglioso mezzo di comunicazione; un mezzo
che ha permesso all’uomo di trasmettere in termini reali i suoi
ricordi, i suoi usi, i suoi costumi, le sue sensazioni, la sua
storia. Ma ora davanti al mio minuscolo museo, forse in preda
all’overdose di endorfine, mi balzano alla mente una miriade di
nomi e fra questi più di altri: Kodak, Zeiss, Leitz, Exakta, ……………..
tutti nomi attinenti alla fotografia. Molti neofiti che oggi
schiacciando il bottone di un cellulare trasmettono all’amico o
alla fidanzata un’immagine, conoscono questi nomi? O meglio,
conoscono la storia di ricerca, dedizione, successi ed insuccessi che
stanno dietro questi marchi famosi e soprattutto gli uomini che vi
stanno dietro? Impariamo a conoscere questi uomini leggendari,
omaggiando il loro ingegno, la loro passione, la fatica, le
delusioni, la pervicacia infusa nella ricerca, tutte qualità, che
hanno contribuito al perfezionamento del principale strumento che ci
permette di vedere il disegno della luce; in fondo è proprio di
questo che si parla, quando si parla di fotografia: il
pennello della luce. Spesso si dice e a ragione che ciò che
ha caratterizzato, con segno inequivocabile, l’avvento della
civiltà umana sia stata l’invenzione della scrittura che, a quanto
noi siamo a conoscenza, risale ai Sumeri seguiti a brevissima
distanza dagli Egizi. Sappiamo anche che i primi scritti nacquero per
esigenze contabili ed amministrative, ma esisteva il problema di
trasmettere le parole con la massima fedeltà. Un messaggero, un
araldo, un portavoce militare potevano introdurre delle variazioni
nel messaggio che l’autorità intendesse comunicare; si sviluppò,
quindi, un sistema di tipo pittografico, ossia mediante immagini.
Quindi la parola dell’immagine è da sempre stata complementare a
quella della scrittura. Le parole e gli scritti, di sovente, venivano
accompagnati da immagini, allora pittoriche, per renderne più chiaro
il concetto. Da quanto citato si può desumere quale sia l’importanza
dell’immagine nella storia dell’uomo. Col crescere
dell’evoluzione gli esseri umani sentirono anche la necessità di
trasmettere ai posteri le vicende umane: le battaglie, le guerre, gli
episodi che avevano costruito la storia e subito dopo i loro costumi,
il loro modo di vivere fino ad arrivare alla propria esaltazione
personale, quindi all’autocelebrazione dei propri meriti; in tutti
i campi: bellici, amministrativi, religiosi, di forza, di ricchezza e
così via. Ovviamente le immagini trasmesse ai
posteri, per autocelebrazione, spesso non rispecchiavano la realtà,
ma solo il volere del committente, quindi davano una rappresentazione
non del tutto aderente alla verità dei fatti ed alle immagini delle
persone. Tralasciando l’aspetto artistico della pittura, sempre
valido per trasmettere i propri stati d’animo in un determinato
momento della vita, i concetti essenziali della vita stessa e
le considerazioni del proprio intimo e prendendo in considerazione
soltanto l’aspetto pittorico documentale, nacque l’esigenza di
ricercare uno strumento riproduttivo più fedele alla realtà dei
fatti ed agli scritti trasmessi ai posteri. Le cosiddette cronache
dei tempi erano frutto di pochissimi colti che le rappresentavano con
la scrittura, ma, nel contempo, queste persone colte vivevano e
potevano trasmettere notizie perché al servizio dei potenti, lo
stesso dicasi per gli autori di immagini, quindi la comunicazione
risultava spesse volte falsata, omessa od anche addolcita per i
potenti meno sfacciati. Oggi, tutti noi, possiamo dar fede a degli
illustri uomini che ci hanno trasmesso le cronache e le immagini del
loro tempo, ma è solo fede, che può essere bene o male riposta
secondo l’attendibilità degli autori delle cronache. Certo le
ricerche archeologiche, le comparazioni con scritti ed immagini che
provengono dalle parti avverse ci hanno ridato cronache ed immagini
un poco più aderenti alla realtà, ma il dubbio su come
effettivamente siano andate le cose o sugli aspetti dei personaggi
che le hanno fatte, rimane. Sicuramente e a grandi linee, conosciamo
ciò che è avvenuto durante la storia dell’uomo, ma i particolari,
le piccole cose, non ci offrono senz’altro l’aderenza reale alla
verità ed a volte un piccolissimo particolare non conosciuto o
conosciuto erroneamente può portare allo stravolgimento di quanto
accaduto in seguito. Se in quelle antiche epoche fosse esistita la
macchina fotografica forse la storia che noi leggiamo sui libri
sarebbe diversa e sicuramente arricchita di tanti particolari oscuri
che ancora oggi creano delle dispute fra studiosi, col risultato di
creare delle fazioni, di fornire delle immagini storiche falsate
nella realtà del contesto storico. Tutto quanto sopra, serve ad introdurre
un piccolo discorso che non ha l’ambizione di porre in discussione
la realtà degli avvenimenti storici, ma soltanto di fare una piccola
ricerca sull’importanza che ha avuto ed ha la fotografia, senza
sottacere tre piccoli esempi per tutti: il dipinto di Ramses II che
lo vede vincitore incontrastato alla battaglia di Kadesh, potrebbe
essere ammirato come documento storico se noi avessimo un reportage
fotografico sulla stessa? Oppure, al contrario: l’olocausto
perpetrato dai nazisti o la guerra del Vietnam li conosceremmo, come
in effetti oggi li conosciamo, se non ci fossero stati dei documenti
fotografici che ce li hanno mostrati in tutta la loro crudezza? La fotografia è nata per caso, ma
inevitabilmente. Ed è figlia delle osservazioni sulla luce e
sull’ottica di Pitagora, Aristotele ed Euclide. Ad essa, però, si
è giunti dopo lunghi periodi contraddistinti da una lenta evoluzione
tecnologica contrapposta ad una formidabile spinta della scienza,
dell’arte e dell’architettura. Fin dal ponderoso De Architectura
di Vitruvio (I sec. A.C.), è il tema della prospettiva che avvicina
matematici ed architetti. Tra l’osservazione ad occhio nudo e
l’osservazione meccanica il passo è breve tanto che la camera
obscura si diffonde a cavallo del
Cinquecento e del Seicento più di quanto non si possa immaginare. Da
vera e propria stanza con un foro al centro di una parete dentro la
quale si entrava fisicamente per osservare e ricalcare su grandi
fogli la proiezione dello scenario esterno, si è arrivati a modelli
piccoli, trasportabili e reflex. La camera
obscura portatile di fine Seicento, che
riproduceva sul vetro smerigliato quanto inquadrato dal foro
stenopeico e poi da una vera e propria lente, diventò lo strumento
di molti pittori per il disegno dal vero, pare che, anche se
discutibile questa affermazione, il grande Raffaello ne fosse stato
contagiato. Piano, piano, mentre le conoscenze
della chimica e il caso (collaboratore fisso di tutte le grandi
invenzioni) evolvono positivamente, molti artisti cominciano a
sentire l’esigenza di fissare quella comoda, impalpabile immagine
della camera obscura. Quindi il primo strumento importante
collegato alla storia della fotografia è la camera
obscura. Una spiritosa ipotesi data la
nascita della camera obscura
nel 1500 in un paese mediterraneo durante il sonnellino
pomeridiano di un distinto artista che forse vide, sulla parete della
propria stanza, una immagine strana che proveniva da fuori. La stanza
era immersa nel buio, ma da un forellino aperto verso l’esterno,
esattamente dalla parte esposta al sole, entrava una immagine che,
rovesciata nei confronti della realtà, ma chiara e netta, andava a
posarsi sulla parete di fronte. Per il distinto artista fu la
salvezza. Non ci sono dubbi, infatti, che la camera
obscura fu l’ancora di salvezza per tanti
pittori di croste che con la propria mano e la fantasia facevano una
enorme fatica a mettere insieme immagini di paesaggi e volti di
persone. Con la figura proiettata in una stanza immersa nella
penombra, il problema prendeva contorni precisi per avviarsi ad
essere risolto. Senza volerci soffermare oltre su
spiritose ipotesi, è comunque accertato che fu nel Cinquecento che
ci si rese anche conto che più piccolo era il forellino dal quale
l’immagine esterna entrava in una stanza immersa nella penombra,
più l’immagine stessa era chiara. Ad aver parlato della camera
obscura sono stati davvero in molti: dal
dotto arabo Ghazzali, un appassionato studioso di ottica, a Ruggero
Bacone; dal matematico olandese Reiner Gemma Frisius a Cesare
Cesariano, un allievo del grande Leonardo da Vinci; dallo stesso
Leonardo allo scienziato napoletano Giovan Battista Della Porta. Fu
proprio quest’ultimo a consigliare con chiarezza e sincerità,
l’uso della camera obscura
a chi non sapeva dipingere e aveva comunque ugualmente bisogno di
maneggiare matite e pennelli. Parlarono ancora della camera
obscura in modo più o meno diverso,
consigliando l’uso di lenti esterne o interne, discutendo se fare
la camera grande o piccola, portatile o fissa, anche il medico
milanese Girolamo Cardano, il pittore Hans Hauer, l’astronomo
Giovanni Keplero e ancora altri. Un fatto è certo: la camera
obscura rappresentò davvero l’ancora di
salvezza per un gran numero di artisti mediocri. Quando avevano una
ordinazione, si sedevano davanti alla loro camera portatile e
poggiando una carta lucida sull’immagine di un soggetto disposto a
pochi passi di distanza, con l’aiuto del sole, si mettevano a
lavorare. La cosa andò avanti per molti anni.
Col procedere delle ordinazioni anche le esigenze di questi
pittorucoli crescevano. L’immagine attraverso la camera
obscura c’era ed era a portata di mano.
Però, bisognava copiarla con la matita e riempire, poi, i bordi
tracciati, con i colori. Sarebbe stato davvero formidabile poter
rendere fissa questa immagine sulla carta e sui fogli da disegno,
senza l’intervento della mano dell’artista! Questo deve essere
stato, il vero sogno di tanta gente se, in un certo periodo della
storia, troviamo decine di persone impegnate nelle ricerche per
fermare quella immagine del sole senza l’intervento dell’artista.
La fotografia avrebbe potuto nascere già molto prima di quanto essa
effettivamente vide la luce. Le
fondamenta su cui essa si sarebbe basata erano già note da tempo. La
camera oscura era
conosciuta fino dai tempi di Aristotele e l’effetto delle sostanze
chimiche che sarebbero state poi usate era in parte già noto. Ciò
che venne a mancare fu quel particolare connubio di mezzi tecnici,
intuizioni, casualità e fortuna che più tardi si è poi verificato.
In molti e per primo in modo scientifico, nel diciottesimo secolo,
l’inglese Thomas Wedgwood (1771-1805), mancò di poco il bersaglio,
infatti con l’aiuto dell’amico Sir Humphrey Davy, Wedgwood, che
era figlio di un noto ceramista, riuscì ad ottenere deboli immagini
su pelle bianca sensibilizzata col nitrato di argento. Non riuscì
però a fissarle in modo stabile e le sue fotografie
potevano essere viste solo furtivamente alla luce di una candela.
Appena esposte alla luce semplicemente svanivano. Wedgwood fu
sfortunato: morì tre anni dopo senza poter portare a termine i suoi
studi. Ancora qualche anno e forse sarebbe riuscito nell’intento di
rendere stabili le sue immagini e la paternità della fotografia
sarebbe stata sua. Quindi, tutti questi ricercatori, potremmo
definirli così, oggi, si erano accorti che il sole aveva alcune
proprietà straordinarie: anneriva la pelle di chi vi si esponeva ed
era anche in grado di svolgere una strana azione su sali a base di
argento. Quei sali, esposti alla luce, divenivano scuri. Come è
noto, fino a ieri, alla base della fotografia, c’era sempre la
proprietà della luce di annerire i sali di argento contenuti nelle
emulsioni fotografiche. Tentando un’analisi con la mentalità di
oggi di quel periodo, si ha la netta sensazione che queste ricerche
procedessero molto casualmente e senza alcun legame fra loro. Le
scoperte erano, però, senz’altro frutto di una grande passione e
del desiderio dell’uomo di capire fino in fondo i fenomeni che lo
circondavano: soprattutto quelli della natura. Appartenevano,
comunque, ad una classe ben precisa coloro che allora potevano
permettersi il lusso di condurre esperimenti e di avere in casa
strumenti vari per fare prove e tentativi di ogni genere. Si
trattava, quasi sempre, di preti, frati, ricchi possidenti, principi,
nobili, militari di grado piuttosto elevato, scienziati e studiosi
già noti, qualche maestro artigiano e funzionari o consiglieri dello
stato. Fu proprio ad un militare che riuscì
per primo l’impresa di fissare l’immagine del sole. Si chiamava
Joseph Nicèphore Niépce e prestava servizio nell’esercito
francese. Niépce, nella storia della fotografia, è un personaggio
che ispira molta tristezza. Lavorò per anni sperimentando con
tenacia e diede alla nascita della fotografia un contributo davvero
fondamentale. Avversato, sempre, da uno stato di salute precario, fu
praticamente truffato quando era invece giusto che raccogliesse il
frutto delle proprie fatiche. Niépce nacque nel 1765 , a Chalon
sur-Saone, da una famiglia abbastanza ricca e abbastanza in vista.
Suo padre era consigliere del re e sua madre, figlia di un noto
avvocato, aveva considerevolmente arricchito il patrimonio della
famiglia. Il ragazzo studiò per diventare sacerdote (nelle famiglie
bene dell’epoca, almeno un figlio prete era necessario), ma la cosa
evidentemente non lo entusiasmava troppo se nel 1792 decise di
arruolarsi nell’esercito. Divenne ufficiale e fu mandato in
Sardegna per un lungo periodo. Non è dato sapere se a causa del
clima o per altri motivi, Niépce si ammalò. Fu un duro colpo.
Alcuni storici francesi affermano che tossiva ininterrottamente,
portandosi il fazzoletto alla bocca. Altri giurano, invece, che si
trattava di un male diverso dalla tisi. Fatto sta che Niépce, smessa
l’aria baldanzosa e giovanile dell’ufficialetto, riuscì a farsi
dare un posto come impiegato dell’amministrazione statale a Nizza
dove rimase per circa sette anni. Nel 1801 tornò a Chalon sur-Saone
e si dedicò a studi e ricerche per poter giungere a fissare
l’immagine del sole. Si può dire che fu così fino alla sua morte
avvenuta nel 1833. Fu infatti Niépce il primo che riuscì a rendere
permanente un’ immagine, oltre ad inventare un diaframma per avere
dalla camera obscura
figure migliori. Il suo apparecchio fotografico, realizzato in zinco,
incorporava un soffietto quadrato a fisarmonica e un altro un
diaframma ad iride variabile, prototipi dei dispositivi dei moderni
apparecchi fotografici. Egli, sicuramente, era a conoscenza degli
studi già compiuti da altri a proposito della proprietà della luce
di scurire le sostanze che contenevano l’argento ed i suoi
derivati. Furono esperimenti lunghi e faticosi che Niépce ebbe la
pazienza di condurre per mesi e per anni. Esiste una immagine su peltro
scattata da Niépce che risale al 1822. Fu ottenuta con otto ore di
posa ed è possibile vedere, ai due lati dell’immagine, la luce del
sole. Dopo il peltro e il rame, Niépce utilizzò, per le sue
eliografie, così venivano chiamate, il rame argentato che dopo
l’esposizione, veniva fatto passare sopra vapori di iodio. Questi
avevano il potere di togliere ogni traccia di bitume fino a scoprire
il metallo sul quale, appunto, questo era stato steso. I vapori
annerivano l’argento mentre le parti protette dal bitume rimanevano
chiare. Ma era ancora tutto così difficile e complicato e Niépce, a
forza di investire denaro negli esperimenti, era rimasto senza un
franco. Nel 1829 (a 64 anni suonati) ne aveva già abbastanza della
eliografia e le possibilità di sfruttare commercialmente gli
esperimenti eliografici sembravano davvero poche. A questo punto, nella ricerca di Niépce
si inserisce un curioso personaggio: Louis Jacques Mandé Daguerre
che a Parigi era conosciuto da tutti per una specie di baraccone che
aveva messo su per fare soldi: il diorama. Vi si proiettavano grandi
allegorie ottenute dallo stesso Daguerre maneggiando abilmente la
camera obscura e
colorando ad olio i disegni ottenuti. Ma chi era Daguerre? Dominato fin
dall’infanzia dalla vocazione per la pittura non aveva saputo
resistere alla vita di impiegato dell’ufficio imposte indirette
dove le aspirazioni paterne lo avevano confinato. Abbandonato il
paese natale Cormeilles, per tentare la grande avventura di Parigi
divenne allievo di un famoso scenografo, ne seguì le orme
acquistando ben presto perizia e fama. Nessuno meglio di lui sapeva
mascherare con accorgimenti pittorici le numerose e grossolane
macchine di scena; nessuno, agli inizi del secolo scorso,conosceva
come lui l’arte di sedurre gli spettatori con gli artifici della
prospettiva. Si compiaceva soprattutto di comporre paesaggi vaporosi,
effetti di tramonti e di notturni lunari, le scene più solenni della
natura. Una trovata di Da guerre è rimasta memorabile. L’11 luglio
1822 aprì al pubblico uno spettacolo assolutamente nuovo per
quell’epoca e pieno di sorprese e di illusioni: il Diorama che fece
furore per diciassette anni, fino a quando il 3 maggio 1839, un
incendio lo distrusse in meno di due ore. Ricostruito poco tempo dopo
fu per un nuovo sinistro ridotto in cenere una seconda volta. Il
Diorama era una sala circolare capace di contenere 350 persone. Lo
spettacolo consisteva nella presentazione, su una piattaforma
girevole, di vedute dipinte su tele di cotone trasparenti. Queste
erano disposte prospetticamente su una profondità di 15-20 metri.
Ogni quadro poteva raggiungere la lunghezza di 22 metri e la
larghezza di 14 ed era illuminato in modo da ottenere un gioco di
ombre e di chiaroscuri capaci di riprodurre con fedeltà incredibile
tutti gli effetti della luce in natura, cioè rappresentare, per
esmpio, un paesaggio o un interno immerso nel sole splendente o nella
nebbia o nella penombra del crepuscolo. Il pubblico poteva assistere
perfino alla scena suggestiva della chiesa di Saint Etiènne du Mont
che man mano si illuminava per la celebrazione della Messa di
mezzanotte con l’entrata dei fedeli. Altre rappresentazioni rimaste
famose furono i panorami del Monte Bianco e dell’Isola di
Sant’Elena e della Basilica di San Pietro a Roma. Condotto dai suoi
studi di pittura, di prospettiva e di ottica, di fronte al problema
del fissaggio delle immagini ottenute per azione del sole, Daguerre
aveva appreso, nel gennaio del 1826, che questo problema era stato
risolto già da qualche anno da Niépce. Era subito entrato in
corrispondenza con lui ottenendone diversi saggi di eliografia su
piastre di stagno o di rame. Niépce, a sua volta, aveva espresso il
desiderio di conoscere i risultati di analoghi esperimenti annunciati
da Da guerre. Ma questi non volle o non poté inviargli in cambio
nessun campione dei propri lavori, benché continuasse ad affermare
di aver scoperto un procedimento diverso da quello di Niépce, anzi
superiore. Al primo incontro tra Nièpce e Daguerre del 1827 ne
seguirono altri, sempre più frequenti, finchè, avendo Daguerre
affermato di aver apportato alla camera oscura un perfezionamento
considerevole tale da costituire un procedimento più semplice e
sicuro per il fissaggio delle immagini, Niépce gli propose di unire
i loro sforzi per imprimere alle loro scoperte un progresso più
rapido e assicurarsene i benefici. Il contratto societario fra i due fu
firmato il 14 dicembre 1829. Vi si legge: il
signor Daguerre invita il signor Niépce ad unirsi a lui allo scopo
di perfezionare un nuovo metodo scoperto dal signor Niépce per
fissare le immagini della natura senza dover ricorrere all’opera di
un artista. Nell’affare, Niépce metteva i
suoi studi e il frutto dei suoi esperimenti e Daguerre un nuovo
adattamento della camera oscura, il suo talento e la sua opera. Come
si vede Niépce metteva davvero, nella società, il frutto di anni di
ricerche e Daguerre solo un sacco di parole. Ma anche Daguerre aveva
qualche freccia nel proprio arco, fu lui, infatti, a fare una serie
di esperimenti, sempre in base alle ricerche di Niépce, utilizzando
il vapore di mercurio con il quale riuscì a rendere visibile
l’immagine sviluppandola. Ci vollero una decina di anni di ricerche
per arrivare a questo risultato da considerarsi tanto più importante
in quanto lo stesso Daguerre poté procedere anche al fissaggio delle
immagini ottenute (rendendole cioè permanenti) utilizzando sale da
cucina e acqua per sciogliere l’ioduro d’argento non colpito
dalla luce. E’ chiaro, comunque, che la messa a punto del
procedimento era dovuta soprattutto agli studi compiuti da Niépce ed
ai tentativi fatti da quest’ultimo nel corso degli anni. L’immagine
ottenuta si poteva vederla, solo piegando di lato il supporto in modo
da evitare la illuminazione diretta. Al sole appariva come una
lastrina di metallo pura e semplice. Si trattava, ovviamente, di una
copia unica che non permetteva duplicati. Il vecchio Niépce non
c’era più: era morto in miseria a 68 anni. Il figlio Isidoro, che
aveva ereditato nella società la parte del padre, era un debole e un
disperato. Fu facile per Daguerre fargli firmare un contratto nel
quale si riconosceva che l’inventore del dagherrotipo (così fu
chiamata subito l’immagine su metallo messa a punto da Daguerre)
era lui e solo lui. Comunque, Daguerre tentò
immediatamente di vendere la formula per fissare le immagini del
sole. Tentò, inoltre, di organizzare subito una società con una
pubblica sottoscrizione e quando si accorse che l’iniziativa non
avrebbe mai avuto successo chiese, senza mezzi termini, ad alcuni
uomini d’affari 250 mila franchi per cedere l’invenzione. Per far
crescere l’interesse e l’importanza della scoperta, Daguerre si
sobbarcava ad ogni genere di fatica. Tanto fece e tanto trafficò da
riuscire ad interessare direttamente il notissimo e influentissimo
astronomo François Arago che il 7 gennaio 1839 lesse una relazione
sulla dagherrotipia alla Accademia delle Scienze, raccontando
mirabilie. Mostrò una serie di dagherrotipi e propose al governo di
acquistare l’invenzione per la quale predisse, a ragione, un grande
avvenire. La nascita ufficiale della fotografia viene fatta risalire
quindi al 1839 anche se la dagherrotipia in realtà era stata messa a
punto nel 1837, ma le prime fotocamere cominciarono ad apparire sul
mercato soltanto due anni dopo. François Arago disse anche che la
Francia offriva questa invenzione al mondo senza sapere che Daguerre
aveva già brevettato, qualche giorno prima, la propria scoperta in
Inghilterra e convinse Daguerre ad accettare dallo stato una pensione
di 6.000 franchi l’anno e una di 4.000 franchi per Isidore Niépce.
Anche le loro vedove avrebbero avuto una pensione di stato. Il
decreto con il quale si acquistava il dagherrotipo e si concedevano
le pensioni fu definitivamente approvato il 19 agosto 1839. Il procedimento dagherrotipico fu così
reso pubblico. Il giorno dopo la relazione di Arago alla Accademia
delle Scienze, il cognato di Daguerre, un cartolaio dai riflessi
rapidi, stampò, d’accordo con il parente, un manuale sul
dagherrotipo di 79 pagine e riuscì a vendere tutte le macchine
fotografiche che aveva già messo a punto, in precedenza, insieme a
Daguerre. Questi apparecchi recavano, ognuno, una firma di
autentificazione dell’inventore. Insieme alla attrezzatura per il
laboratorio, un completo per dagherrotipia poteva pesare anche una
cinquantina di chilogrammi. Questi apparecchi consistevano in
due scatole: la superiore dotata di vetro smerigliato scorreva
all’interno di quella frontale contenente l’obiettivo.
Impiegavano lastre metalliche nel formato 16,5x21,5cm, l’obiettivo
standard presente sui dagherrotipi era costruito dall’ottico
francese Charles Chevalier ed aveva una lunghezza focale di 36cm ed
era contenuto in una montatura di ottone, con un disco sempre di
ottone che fungeva da otturatore. L’apertura effettiva veniva
ridotta a f/14 da un diaframma con foro di 28,5mm posto all’interno
del tubo e ciò dava una notevole profondità di campo all’immagine.
Il dagherrotipo aveva bisogno, oltre all’apparecchio fotografico
vero e proprio, anche di una cassetta per le lastre, della scatola di
ionizzazione, della scatola per lo sviluppo al mercurio, della
lampada a spirito ed altri accessori, ecco spiegato il notevole peso
di questa attrezzatura. Del manuale sul dagherrotipo furono
stampate, in Francia, almeno trenta edizioni. Nel giro di un anno era
già stato tradotto addirittura in tutte le capitali del mondo. In
Italia la notizia della nascita della fotografia viene pubblicata con
grande rilievo da tutti i giornali. A Pisa, nel corso di una
delle più grandi assemblee di scienziati e dotti mai riunitasi prima
in Italia, si scattano alcuni dagherrotipi che destano stupore,
eccitazione, entusiasmo. Sono trascorsi solo alcuni mesi
dall’annuncio ufficiale di Arago e per il nostro Paese,
l’esperimento di Pisa, è la prima grande consacrazione ufficiale
della fotografia. Ovviamente, altri sperimentatori, in
Europa soprattutto, affermarono di essere stati i primi a mettere a
punto il procedimento che ora veniva chiamato dagherrotipia, ma il
socio di Niépce, sicuro del fatto suo, non si scompose mai. Guadagnò
un sacco di soldi e divenne una delle persone più famose dell’epoca.
E’ certo che se non fosse stato per la sua diabolica abilità nel
commerciare e trafficare, la Francia, ufficialmente, non sarebbe
certo arrivata prima a dichiararsi proprietaria della straordinaria
invenzione. Erano certamente già in molti ad avere messo a punto
procedimenti similari a quello di Daguerre e ad avere sperimentato
con successo formule chimiche che avrebbero portato, comunque, ad un
qualche procedimento buono a fissare le immagini della luce. La scoperta ottico-pittorica di
Daguerre era appena stata annunciata che già vi furono apportate una
serie di modifiche importanti: una fu quella del viraggio all’oro
dei dagherrotipi. In questo modo l’immagine appariva più
contrastata e i vantaggi erano evidenti. Se gli altri continuarono a studiare e
ad arricchire il procedimento, Daguerre, dopo avere spiegato a tutti
i propri metodi e dopo aver dato prove e dimostrazioni, si ritirò in
campagna ad una quindicina di chilometri da Parigi dove morì il 10
luglio 1851 all’età di 64 anni. Il paesetto dove è sepolto si
chiama Bry-sur-Marne. Non meno importanti, a parte gli
inventori fasulli e i profittatori, furono gli studi dell’inglese
Henry Fox Talbot. La lettura della relazione di Arago alla Accademia
delle Scienze fu un grosso colpo per lui. Cultore delle scienze e in
particolare di quelle in rapporto con la luce, studiava da anni sali
vari ed effetti con un certo successo. Ora stavano per defraudarlo di
quella che egli riteneva la propria invenzione. Talbot si precipitò,
allora, a rendere noto il procedimento che aveva messo a punto. Non
era poi così complicato come poteva sembrare, L’erudito signore
inglese immergeva un foglio di carta in una soluzione di sale e
quando questo era asciutto tuffava lo stesso foglio in una soluzione
di cloruro d’argento che era, notoriamente, sensibile alla luce. A
differenza del dagherrotipo, con il foglio di carta di Talbot reso
trasparente con l’uso di cera, si ottenevano più copie. Poi
ulteriori ricerche, portarono Talbot a sviluppare la carta sensibile
con acido gallico ed a fissare l’immagine ottenuta con iposolfito
riscaldato. Quindi avveniva l’essicazione e si provvedeva a rendere
trasparente la carta con l’uso della cera. Le negative ottenute
venivano, a questo punto, messe a contatto con un altro foglio di
carta al cloruro d’argento e si esponeva il tutto al sole per
ottenere una immagine positiva. Insomma fu Talbot ad inventare il
procedimento negativo-positivo che ancora oggi è a base della
fotografia analogica. Il risultato era tutt’altro che perfetto. La
finezza di toni dei dagherrotipi era ancora insuperata. Comunque,
Talbot battezzò queste sue immagini Talbotypes dopo averle a lungo
chiamate calotypes. Talbot illustrò la propria scoperta nel libro La
matita della natura, pubblicato nel 1814 e contenente, per la prima
volta nella storia dell’editoria, anche un buon numero di foto. Il gentile e distinto signore di
campagna, con il passare del tempo e dopo aver reso nota la tecnica
usata, si trasformò, purtroppo in un personaggio un po’ acido e
attaccato al denaro. Cercò di brevettare il suo procedimento e fece
causa a chi lo usava senza autorizzazione e senza pagare una
tangente. Finì per rimetterci. Aveva richiesto altri brevetti ed
esigeva soldi da tutti attirandosi antipatie a non finire. Un giorno,
una sentenza della magistratura mise fine al suo monopolio. Fra
l’altro, nella foga di mettere le mani su tutto, Talbot utilizzò,
senza farne il nome, anche idee, soluzioni tecniche e chimiche che
gli erano state suggerite dal grande astronomo inglese sir John
Herschel. Era stato proprio Herschel ad ottenere una prima fotografia
su carta sensibilizzata con carbonato d’argento e fissata con
iposolfito di sodio, il 29 gennaio 1839. Aveva presentato, a questo
proposito alla Reale società di scienze, una memoria sull’arte
della fotografia, ma decise onestamente di ritirarla per non sminuire
il lavoro di Talbot al quale suggerì, fra l’altro, idee e trovate
di ogni genere senza ricavarne niente. Herschel aveva già affrontato e
risolto problemi connessi alla fotografia in brevissimo tempo mentre
tutti gli altri, Niépce e Daguerre compresi, avevano impiegato anni
di ricerche e tentativi. E’ sempre Herschel che introdusse, nel
gennaio 1840, i termini negativo e positivo. Nel 1839 aveva già
utilizzato le parole fotografare e fotografico (dal greco). Ottenne
sempre nel 1839, anche la prima fotografia su vetro e nel 1842 mise a
punto il procedimento cianografico. Vent’anni dopo, il grande
scienziato pronuncerà anche una parola magica divenuta, da allora,
un po’ il simbolo della fotografia: istantanea. Autentico studioso e vero uomo di
cultura Herschel fu sempre prodigo di consigli con tutti e non si
preoccupò mai di ricavare denaro dalle proprie scoperte. E’ uno
dei pochi, nell’ambito della storia della fotografia, ad aver dato
molto ed aver preso poco: davvero un raro esempio di coerenza e di
dignità. La camera
obscura, tutto sommato è però un attrezzo
ancora molto primitivo: una cassetta a tenuta di luce con una specie
di obiettivo composto da una sola lente, il cosiddetto menisco
semplice. Iniziò la corsa alla miniaturizzazione e nel 1840
Alexander S. Wolcott brevettò un apparecchio fotografico a specchio.
Al posto dell’obiettivo la cassetta aveva una grande apertura
attraverso la quale la luce colpiva, all’interno, uno specchio
concavo di 18 cm che rifletteva e formava un’immagine sulla lastra
sensibilizzata rivolta verso lo specchio. I vantaggi erano diversi:
accogliere più luce e non invertire l’immagine, ma lo specchio
avendo lunghezza focale ridotta, limitava le dimensioni del ritratto
a 5cmx2cm e l’immagine era leggermente morbida. Si ebbe inoltre la
riduzione delle esposizioni da tre a cinque minuti e con la scoperta
dell’accelerazione chimica della lastra i tempi furono
ulteriormente ridotti. Successivi cambiamenti sugli obiettivi resero
possibile la ripresa di ritratti di dimensioni maggiori. Infatti già
nel 1840 il prof. Joseph Petzval, grande ottico e grande matematico
ungherese, progetta e calcola un obiettivo a quattro lenti di
luminosità f/3,7 che fa giungere sul materiale sensibile una
quantità di luce almeno sedici volte superiore a quella che il
menisco semplice lasciava passare. Il nuovo obiettivo viene subito
fabbricato e messo in commercio dall’ottico Peter Voigtlaender di
Vienna che sarà il fondatore di una delle più note case per la
fabbricazione di apparecchiature fotografiche. Ciò, di fatto, rese
possibile la nascita della fotografia di ritratto mentre prima il
dagherrotipo munito dell’ottica originale lo rendeva adatto solo
alla fotografia di soggetti statici. si possono fare fotografie, in
quel periodo, con esposizioni inferiori ad un minuto. E’ già un
progresso enorme se si pensa che in precedenza, una normale
esposizione per ritratti si protraeva fino a cinque minuti ed era
necessaria anche la piena luce del sole. E’ il periodo, non ci sono dubbi,
delle grandi fortune e dei grandi entusiasmi per la fotografia. Non
si può non ricordare, per esempio, l’importantissimo contributo
dato alla fotografia dal francese Louis Blanquart-Evrard che
perfezionò sensibilmente il sistema calotipico o talbotipico (messo
a punto da Talbot). Blanquart-Evrard ricoprì con chiaro
d’uovo la carta, per trarne negativi con una superficie molto
liscia. Questa carta, con i perfezionamenti dello specialista
francese, fu utilizzata in seguito, per la stampa. La chiamarono
carta-albumina. Anche Blanquart-Evrard non aveva certo lavorato per
la gloria. Doveva vivere e mise su un negozio dove si vendevano foto
di architettura e di viaggi. La lotta parallela per mettere a punto
sempre migliori materiali sensibili e perfezionare la camera oscura e
gli obiettivi, continuava intanto in ogni nazione. Ormai era chiaro,
per esempio, che il calotipo non rendeva bene i particolari e che la
brillantezza delle immagini lasciava a desiderare. Fu così che si
tentò di utilizzare, come supporto ai sali d’argento sensibili
alla luce, il vetro. Ma le difficoltà stavano proprio nel fatto che
i sali d’argento non rimanevano bene aderenti alle superfici lisce.
I tentativi per questo matrimonio andarono avanti per diverso tempo.
Si provò perfino con la bava delle lumache. Nel 1847 appare alla ribalta
internazionale del mondo fotografico un nome già tanto famoso nella
storia dell’immagine ottica: quello di Niépce, ma questa volta si
trattava di Niépce de Saint Victor, nipote di Nicèphore. Niépce di
Saint Victor, scienziato e chimico dilettante, aveva letto degli
esperimenti di sir John Herschel a proposito di un supporto ideale
per i sali d’argento sensibili e si dedicò alla ricerca per
ottenere l’unico risultato che egli riteneva fondamentale per la
fotografia: trovare una sostanza per fare aderire perfettamente
l’argento sensibile ad un supporto vetroso. Provò con l’amido e
la gelatina, ma fu tutto inutile. Infine, tentò anche con il bianco
dell’uovo al quale aggiunse ioduro di potassio, bromuro di potassio
e sale: il risultato, per la prima volta dopo tante prove, parve
positivo. Questa strana mistura che somigliava più ad una crema
adatta alla cucina che ad un prodotto per la fotografia doveva essere
ogni volta, filtrata attraverso un panno. La soluzione così
ottenuta, fu utilizzata per ricoprire le lastre di vetro che venivano
tuffate, successivamente, nel nitrato d’argento. La lastra poteva
essere messa nella macchina fotografica sia asciutta come bagnata.
Asciutta richiedeva ancora tempi di posa più lunghi di quelli
necessari per un dagherrotipo o un calotipo. Nel 1848 Niépce di Sain
Victor comunicò ugualmente la propria scoperta all’Accademia delle
Scienze di Parigi. Altri miglioramenti fecero della carta all’albume,
come fu chiamata, un prodotto di larghissimo consumo per oltre
quarant’anni. Il consumo di uova nel mondo era cresciuto, dal 1848
in poi, in modo spaventoso. Tra il 1890 ed il 1900, la Dresden
Albuminpapier Fabrik, una grande ditta europea per la produzione di
carta albuminata consumava nei suoi stabilimenti 60.000 uova al
giorno. Si utilizzava il bianco ed il rosso veniva gettato o venduto.
Era quindi una impresa economicamente vantaggiosa, in quel periodo,
anche mettere su allevamenti di galline ad uso... fotografico. Ed ecco, con il 1851, un altro salto e
un altro passo avanti nelle scoperte connesse alla fotografia.
Frederick Scott Archer, architetto e fotografo appassionato, annuncia
di aver messo a punto il procedimento al collodio. Si tratta di un
miscuglio di fulmicotone (nitrato di cellulosa) ed alcool, già da
tempo utilizzato in medicina per suturare le ferite. Il prodotto,
asciugandosi, lascia una specie di foglio pellicolare che aderisce
perfettamente alle lastre di vetro. All’intruglio viene aggiunto
ioduro di potassio e la lastra così trattata al buio assoluto,
viene, ogni volta, immersa nel nitrato d’argento e viene inserita
in uno chassis come quelli usati per le macchine fotografiche odierne
(macchine da studio). Per lo sviluppo delle lastre impressionate si
fa uso di acido pirogallico o solfato ferroso. La lastra viene
comunque esposta nella macchina fotografica ancora umida, per questo
il procedimento fu detto a lastra umida. Sempre nel 1851 Richard Willatts
presentò un modello di apparecchio fotografico portatile di nuove
concezione. Grazie a un corpo di stoffa conico a espansione, era
leggerissimo e, pur essendo in grado di riprendere immagini
21,5cmx26,5cm, misurava 10cm di spessore una volta ripiegato. Il
dorso era montato su una piastra scorrevole, che poteva essere
fissata a qualsiasi distanza dall’obiettivo, consentendo,così,
l’uso di diverse lunghezze focali. Già nel 1850 Marcus Sparlino
progettò il primo apparecchio a magazzino. Dieci fogli di carta
sensibilizzata potevano essere messi in contenitori separati,
sistemati in una specie di magazzino dopo l’esposizione, ciascun
foglio veniva lasciato cadere in un reticolato posto al disotto
dell’apparecchio fotografico. Melhuisch e Spencer nel 1854,
brevettarono la prima pellicola in rullo. Il materiale (carta oleata)
era avvolto su una bobina ricevente. Quasi contemporaneamente, H.J.
Barr trovò il sistema per fissare fogli di carta sensibilizzata su
un nastro di tela nera, lasciando circa 5cm di spazio tra ciascun
foglio. Il nastro veniva arrotolato su una bobina e riavvolto
sull’altra nel modo solito. Le immagini venivano tolte dal nastro e
sviluppate una per una. Questo sistema era più semplice di quello di
Melhuish e Spencer nel quale il rullo di carta doveva essere
contrassegnato per ciascuna immagine e tagliato prima dello sviluppo.
Fu solo nel 1875 che venne realizzata la prima pellicola in rullo, da
L. Warnerke che stese una emulsione di gelatina su di un supporto
cartaceo, la quale era sensibile alla luce, e ciò permise che dopo
l’esposizione il negativo veniva separato per permettere il
trattamento di stampa. Nel 1871, il microscopista inglese
Richard Leach Maddox, medico di chiara fama e appassionato fotografo,
annuncia la messa a punto di un nuovo procedimento fotografico:
quello con emulsione alla gelatina contenente bromuro d’argento. Il
collodio, sostiene Maddox, può, ora, essere sostituito con grande
vantaggio per tutti e soprattutto per la praticità e la
semplificazione delle operazioni ortografiche. Al momento della messa
a punto del nuovo procedimento chimico le lastre alla gelatina si
impressionavano meno velocemente di quelle al collodio, ma successivi
perfezionamenti la migliorarono e nell’agosto 1879 vennero
descritte, con tutti i dettagli, le operazioni necessarie per la
produzione industriale delle lastre alla gelatina. Questo per quanto
riguarda l’immagine negativa, dalla quale si possono poi ricavare
molte riproduzioni chiamate positive. Il fotografo, da quel momento,
non ha più bisogno di preparare in proprio le lastre e di portarsi
dietro l’intero laboratorio fotografico. Finiva un’epoca e ne
cominciava davvero un’altra. Nel febbraio del 1892, i giornali di
tutto il mondo pubblicano un disperato appello per una sottoscrizione
a favore del dott. Maddox che sta morendo di fame. Dice l’annuncio:
egli (Maddox) non
si cura di profittare finanziariamente della sua scoperta ed ora
giunto alla vecchiezza trovasi in una situazione economica delle più
precarie. A Londra
- continua l’appello - è già stato
costituito un comitato per la raccolta nel regno. Un comitato
internazionale è stato istituito a Southampton. Lo presiede il
sindaco della città. Il comitato ha già invitato le riviste
fotografiche di tutto il mondo a collaborare. Ed eccoci ad un’altra svolta
fondamentale nella storia della fotografia: la scoperta della
celluloide, ottenuta da Alexander Parkes già nel 1861. Comunque,
solo nel 1888 vengono fabbricate pellicole di celluloide abbastanza
sottili per essere utilizzate come supporto rigido al posto del
vetro. La celluloide viene quindi, per la prima volta nella storia
della fotografia, ricoperta da uno strato di emulsione alla gelatina
bromuro e tagliata a seconda dei formati necessari. Le lastre alla
gelatina a secco semplificarono
la tecnica fotografica e ridussero l’attrezzatura all’incirca
come quella attuale; contemporaneamente la carta rapida al bromuro
rese possibili gli ingrandimenti. Verso la fine del XIX secolo, il
dagherrotipo sparì definitivamente e, sebbene la gran parte delle
fotocamere in circolazione fossero ancora dei veri e propri banchi
ottici, cominciarono ad apparire le alternative, prime fra
tutte le box e le folding.
Il Signor Kodak
George Eastman futuro fondatore della
famosissima Kodak, nasce a Waterville, nello stato di New York, il 12
luglio 1854. E’ il più giovane di tre figli. All’età di cinque
anni si trasferisce con la famiglia a Rochester. A causa della
improvvisa morte del padre, la madre si trova nella necessità di
mandare a lavorare i propri figli compreso il quattordicenne George
che inizia a prestare attività in una compagnia di assicurazioni. La
sera, tuttavia, frequenta una scuola di ragioneria, perché è sua
intenzione impiegarsi in una banca. Nel frattempo ha iniziato ad
appassionarsi di fotografia e a 24 anni Eastman parte per Santo
Domingo con una macchina fotografica enorme ed un altrettanto
gigantesco treppiede. Lavora in banca, ma la passione per la
fotografia lo induce, dopo l’orario di ufficio, a preparare lastre
di vetro con gelatina liquefatta e resa sensibile. Eastman lavora di
notte, in casa. Il rivestimento del supporto di vetro avviene a mano,
ma ben presto il bancario che poi butterà per aria registri e
scartoffie per dedicarsi a questo strano lavoro, mette a punto una
macchina che provvede alla bisogna. Nel 1881, Eastman che nel
frattempo è già riuscito a mettere in piedi una specie di piccola
industria a conduzione familiare, lascia la banca definitivamente per
continuare a fabbricare lastre asciutte. Il merito di Eastman non sta
tanto in questo suo primo successo – non è l’inventore della
lastra a secco, ha semplicemente preparato per il mercato americano
un prodotto, studiandolo e perfezionandolo, già esistente in Europa
– quanto nello sviluppo che egli ha dato alla Kodak e nelle
innovazioni che ha introdotto in campo fotografico. Per un bel pezzo,
molte di queste lastre già vendute a molti fotografi, perdono presto
di sensibilità o si guastano irrimediabilmente. Eastman non si
scompone: avuto indietro il materiale difettoso lo cambia dandone del
nuovo senza fare pagare i clienti. E’ finalmente nel 1889, dopo
ricerche e nuovi tentativi, che l’ingegnoso affarista americano
comincia la produzione di pellicola a base di nitrato di cellulosa.
La disponibilità di questa pellicola flessibile permetterà a Thomas
Edison, nel 1891, di sviluppare e perfezionare la sua cinepresa ed il
suo proiettore. Con questa innovazione si può dire che sia nato il
cinematografo. La pellicola di celluloide, per la verità era già
stata sperimentata nel 1887 da un prete, il reverendo Hannibal
Goodwin morto sconosciuto senza aver tratto guadagni dai propri
studi. Goodwin, fra l’altro, ancor prima del 1881 aveva messo a
punto un procedimento alla colla per ottenere lastre litografiche: il
famoso processo che fu chiamato fotocollografico e che serviva al
perfetto trasferimento dell’immagine ottica dal supporto ai sali
d’argento al supporto inchiostrabile per la stampa tipografica. Furono, comunque, gli eredi di Goodwin
a far causa alla ditta di Eastman che dovette, al termine di una
causa protrattasi per circa dieci anni, pagar loro un forte compenso. Nel 1888, Eastman progetta e costruisce
una macchina fotografica diventata famosa nel mondo, la Kodak. Si
tratta di una macchina a cassetta che viene caricata con pellicola
avvolta su un rocchetto. Si possono così ottenere, ogni volta, circa
100 fotografie rotonde, del diametro di sei centimetri. La cassetta
ha, nella parte frontale, un forellino con una lente ed è di uso
facilissimo. L’apparecchio viene venduto già caricato con la
pellicola. Quando le foto sono state tutte scattate, si deve
restituire l’apparecchio alla casa che manda indietro la Kodak
nuovamente caricata insieme alle fotografie riuscite del rullo
precedente. La Kodak è forse la macchina che più di ogni altra ha
contribuito a rendere popolarissima la fotografia in tutto il mondo. La casa vende migliaia e migliaia di
apparecchi sbandierando ai quattro venti il motto: “voi premete il
bottone, noi faremo il resto”. In breve tempo, le macchine
fotografiche a cassetta in giro per il mondo sono milioni e l’impero
Eastman cresce a dismisura. Nel 1895 nasce invece il primo
apparecchio fotografico… tascabile. Con alcune parti in alluminio,
utilizza pellicole flessibili trasparenti caricate in rullino e porta
una piccola finestra per permettere di leggere il numero del
fotogramma da esporre. Nel 1896 la Kodak mette in commercio la prima
pellicola positiva per le riprese cinematografiche; un grande colpo
per la nascente industria del cinema che fino ad ora era stata
costretta ad usare le stesse pellicole utilizzate per gli apparecchi
fotografici. Con l’apparecchio fotografico Brownie, uscito nel
1900, proprio al nascere del XX secolo, la Kodak per prima ha dato a
tutti la possibilità di fare fotografia. Questo apparecchio,
infatti, poteva essere acquistato al prezzo di un dollaro e la
pellicola costava 15 cents. Nel 1902, secondo una statistica
dell’epoca, la casa americana dell’ex bancario produce dall’80
al 90 per cento delle pellicole su rullo. La Kodak, come mai altre
macchine prima, sviluppa il gusto per la istantanea, il gusto per le
foto all’aperto e sviluppa anche il gusto e il senso del reportage.
La Eastman diviene un vero e proprio impero commerciale per il quale
lavorano migliaia di tecnici e specialisti per mettere a punto
pellicole e materiale sempre più perfezionato. Eastman si reca
spesso a Parigi dove ha contatti con Nadar figlio e con i fratelli
Lumière, gli inventori del cinematografo. I due fratelli, per anni,
avevano studiato e risolto moltissimi problemi connessi all’uso
delle macchine fotografiche e del materiale sensibile. La primitiva
pellicola Kodak al nitrato di cellulosa, molto infiammabile e quindi
pericolosa, fu sostituita, più tardi, da un’altra all’acetato di
cellulosa che non bruciava. Anni e anni di ricerche hanno richiesto
l’opera attenta di tecnici qualificatissimi. Eastman, orgoglioso della sua grande
azienda e del suo essersi fatto da solo, segue sempre da vicino il
lavoro di questi tecnici e accetta consigli e idee anche da chi non è
un vero e proprio professionista. Comunque, ad un certo momento,
Eastman comincia ad investire denari anche in fondazioni intestate al
proprio nome e in grandiose opere di beneficenza. A 77 anni con la
lucidità e la freddezza che lo avevano sempre aiutato nel costruire
l’impero Kodak, Eastman si siede ad un tavolo e su un foglietto
scrive poche parole di commiato aggiungendo che ormai ha fatto tutto
ciò che poteva fare e che quindi può anche andarsene. Poi, si
uccide. E’ la fine di un grosso personaggio del mondo della
fotografia.
Tra il 1880 e il 1900 furono prodotte
centinaia e centinaia di modelli di macchine fotografiche a lastre e
con pellicola a rullo. Fra l’altro, nel 1889, si era tenuto a
Parigi il Congresso mondiale di fotografia che aveva stabilito usi e
denominazioni del materiale ottico e chimico, fissando anche norme
tecniche valide a livello internazionale. E’ una necessità perchè
il mondo della fotografia appare ormai un’intricata babele:
circolano apparecchi fotografici di ogni formato e funzionanti con i
più svariati sistemi. Volendo tentare una classificazione di
queste macchine si potrebbe, grosso modo, dividerle in macchine con
cassetta di ricambio delle lastre (il periodo delle lastre di
ricambio coincide già con il collodio secco e la gelatina bromuro)
che di solito avevano 12 ricambi su vetro o su pellicola; macchine a
magazzino con 12 lastre o quaranta fogli di pellicola; apparecchi
fotografici reflex con obiettivo unico e vetro smerigliato a 45° o
con due obiettivi (uno per il mirino e uno per la ripresa);
apparecchi fotografici con pellicola a rullo. L’otturatore a tendina sul piano
focale dell’immagine, viene messo a punto nel 1861, ma solo molto
più tardi ha successo come molto più tardi hanno successo le
macchine reflex biottica. Gli apparecchi erano, in genere,
costruiti in legno con parti di metallo oppure in legno e parti in
leghe leggere di metallo, ottone e con soffietti di stoffa gommata.
La
Fondazione Carl Zeiss
Nel 1847 Carl Zeiss inizia la
produzione di microscopi usando come obiettivo due semplici lenti
accoppiate, o un tripletto. I microscopi costruiti da Carl Zeiss
riescono subito a segnalarsi per la qualità ottica e per la estrema
accuratezza della costruzione meccanica, vincendo nel 1861 il primo
premio all’esposizione di Theuringen. Per i successivi dieci anni
Zeiss continua a costruire microscopi usando una attrezzatura
artigianale, ma nel 1870 adotta già alcuni macchinari che gli
permettono di avviare una produzione di serie che gli apre le porte
del mercato scolastico ed universitario. Contrariamente ai metodi
produttivi inaugurati da Carl Zeiss, la maggior parte dei fabbricanti
di microscopi continuano ad utilizzare una lavorazione artigianale,
almeno fino al 1920. Grazie alle pregevoli e accurate realizzazioni
di Carl Zeiss viene definitivamente maturato il concetto di
microscopio come strumento scientifico di alta precisione, tanto che
i più importanti fisici e medici dell’epoca utilizzano microscopi
Zeiss. Negli ultimi anni del secolo il medico Robert Koch,
annunciando la scoperta del bacillo tubercolare, ringrazia
pubblicamente la società Carl Zeiss per l’aiuto determinante dato
alle sue ricerche, fornendo alla stessa Zeiss una formidabile
pubblicità. a società Carl Zeiss come industria
di microscopi si afferma definitivamente nei primi anni del nuovo
secolo, grazie all’imbattibile rapporto fra qualità e prezzo dei
suoi prodotti e con la presentazione nel 1904 dei microscopi a
torretta multipla. La spiegazione del successo dei microscopi Zeiss è
dovuta al fatto che, mentre la maggior parte delle ditte dell’epoca
preferiscono ancora costruire i propri microscopi utilizzando dei
lunghi tubi e delle lenti piatte di facile realizzazione, Carl Zeiss
riesce a realizzare dei microscopi con un tubo di visione lungo
appena 16 centimetri. Per ottenere questi risultati Carl Zeiss
utilizza lenti con una curvatura molto accentuata che richiede una
lavorazione molto più complessa. L’impiego di questo tipo di lenti
inizia nel 1872, sei anni dopo il fatidico incontro tra Carl Zeiss e
il giovane professore di matematica Ernst Abbe, classe 1840,
direttore dell’osservatorio di Jena, a cui si deve lo studio sulla
condizione di aplanarità dei sistemi ottici. Ma chi era Ernst Abbe?
Figlio di un operaio di una filanda che si spaccava la schiena per
sedici ore al giorno, senza pausa pranzo, fu aiutato dai sacrifici
del padre e dal padrone della filanda a prendere la laurea in
matematica, Abbe non dimenticò mai le sue umili origini e la sua
vita ne è una testimonianza. Nello stesso anno il catalogo Zeiss
comprende ben 17 obiettivi diversi per microscopi, mentre il
controllo di qualità è assicurato dallo stesso Carl Zeiss, che, con
un martello in mano, si incarica personalmente di distruggere i pezzi
non corrispondenti alle caratteristiche volute. Con l’aiuto dei calcoli matematici e
delle ricerche scientifiche di Abbe la produzione di microscopi
progredisce velocemente, e nel 1876 Carl Zeiss invita Abbe a
diventare suo socio in affari. Da quel momento la personalità di
Abbe si dimostrerà determinante per il futuro sviluppo dell’azienda. Se l’attività industriale di Carl
Zeiss e l’impegno scientifico di Ernst Abbe spianano la strada
all’affermazione dei microscopi e degli altri prodotti firmati
Zeiss, è con l’incontro con Otto Schott che si realizza la
definitiva affermazione dell’azienda. Otto Schott possiede una certa fama
nella lavorazione del vetro e nel 1879 invia ad Abbe un nuovo tipo di
vetro all’ossido di litio. Abbe rimane talmente affascinato dalle
scoperte di Schott che nel 1881 lo invita a Jena. Fra i due
scienziati nasce subito un rapporto positivo e molto fecondo e nel
1882 Schott decide di trasferirsi definitivamente a Jena per
sviluppare ed ampliare le proprie ricerche in stretta collaborazione
con Abbe. Il 21 ottobre del 1883 Carl Zeiss, Otto
Schott e Ernst Abbe, associando anche Roderich, figlio di Carl,
fondano la società Schott und Genossen (Schott e Soci), riuscendo ad
ottenere un importante finanziamento dallo stato prussiano. Il primo di settembre del 1884 viene
acceso a Jena il primo forno fusorio per la produzione di vetro
ottico e finalmente l’otto di settembre dello stesso anno viene
portata a termine la prima fusione. Nel 1886 il primo catalogo della
Società descrive ben 44 tipi diversi di vetro e per la prima volta
fornisce le caratteristiche dei vetri, come ad esempio l’indice di
rifrazione e la dispersione dei colori. Con l’avvio della
produzione industriale Schott si apre una nuova era per l’ottica,
non più legata ad esperimenti empirici, ma alle reali necessità
degli utilizzatori. Grazie alla collaborazione fra Abbe e
Schott vengono messi a punto diversi tipi di vetro per i molti campi
di impiego. Vengono creati vetri ottici al bario, al fosfato e ai
composti di zinco. Grazie alla disponibilità del laboratorio ottico
della società Shott und Genossen, Ernst Abbe riesce a realizzare una
sua vecchia idea: quella di costruire un obiettivo fotografico il più
possibile corretto per le tre linee dello spettro. Questo obiettivo, definito per la prima
volta come apocromatico, viene commercializzato nel 1886, aprendo una
nuova strada nel settore dell’ottica fotografica. Ernst Abbe,
seguendo con generosità i suoi ideali di scienza aperta a tutti,
preferisce non brevettare il nuovo obiettivo apocromatico,
permettendo così alle società concorrenti di utilizzare
commercialmente le proprie scoperte scientifiche. Questa generosità
trova spiegazione nella fede in una scienza intesa come strumento per
sollevare l’umanità dalle proprie miserie ed afflizioni. Abbe in
altre parole dimostra di seguire un filone filosofico e di pensiero
tipico dei grandi ricercatori di fine Ottocento. Grazie ai proventi che derivano
dall’attività industriale, i settori di interesse della società
Carl Zeiss si moltiplicano, l’azienda si dota di una nuova
organizzazione produttiva e vengono individuati i responsabili dei
diversi settori. Il Dr. Czapski ad esempio si occupa dei telescopi,
mentre il Dr. Kunig si occupa dei binocoli e dei vetri ottici. Nel
1886 era entrato a far parte dell’organico della Schott, il dottor
Paul Rudolph, nato nel 1858. Al Dr. Paul Rudolph, infine, viene
affidata la responsabilità del calcolo teorico e della realizzazione
degli obiettivi per usi fotografici, che finiscono per diventare una
delle produzioni più apprezzate dell’intera azienda. A conferma
del crescente successo commerciale e dell’ampliato campo di
interessi, si è nel frattempo passati dai 20 dipendenti del 1861 ai
250 del 1886. Rudolph fu il primo ad utilizzare i
vetri di Schott ai fini della produzione di obiettivi fotografici e
fu utilizzando tali vetri che nel 1890 presentò il suo primo
obiettivo asimmetrico, dotato di quattro lenti in due gruppi,
l’obiettivo aveva una luminosità di f/6,3, poi portata a f/4,5;
inizialmente fu battezzato Zeiss Anastigmat,
poi nel 1900 venne ribattezzato Protar.
Nel 1895 vennero accoppiati due Protar,
ottenendo così il Doppio Protar
(ovvero Doppio Anastigmat).
Nel 1896, dopo una lunga e laboriosa ricerca, Rudolph presentò
un nuovo schema ottico, il Planar.
Tale nome derivava dalla perfetta planeità di campo ottenibile,
Praticamente esente da aberrazioni, il Planar
aveva una luminosità di f/3,6 ed era uno schema piuttosto complesso,
costituito da sei lenti in quattro gruppi. A causa dell’elevato
numero di lenti, il contrasto del Planar
risultava molto basso. Se sul piano scientifico dunque il progresso
era stato notevole, all’atto pratico il Planar
risultava assai poco soddisfacente. Né risultò soddisfacente
l’Unar, un
obiettivo progettato nel 1899, dotato di quattro lenti e con
luminosità f/4,5. Ma Rudolph non si arrese. Con l’ausilio di un
valido collaboratore, il dottor Wandersleb, partì da uno schema
ottico ben collaudato, il tripletto di Cooke,
realizzato nel 1893 da Dennis Taylor per la Cooke
& Sons, ridusse la distorsione e
migliorò la qualità ai bordi. Aggiungendovi la parte anteriore
dell’Unar e quella
posteriore del Protar,
Rudolph realizzò così nel 1902 un obiettivo con tre gruppi, per un
totale di quattro lenti. Fu proprio questo numero, quattro, a
suggerire il nome da dare all’obiettivo, che fu così battezzato
Tessar (dal greco
“tessera”, ovvero “quattro”). Inizialmente il Tessar
aveva una luminosità di f/6,3, e grazie all’eccezionale nitidezza
fu presto soprannominato “Occhio d’aquila”. Le tre
realizzazioni, Unar, Planar e Tessar
portarono rapidamente la Zeiss ai vertici dell’industria ottica,
ponendola ai massimi livelli nel campo della ricerca ottica e
fotografica. Accadde così che un numero sempre maggiore di industrie
fotografiche prese a rivolgersi alla Zeiss per gli obiettivi da
abbinare alle proprie fotocamere, come la Rollei, la Robot e la
Ihagee. Di fatto, il Tessar
divenne lo schema ottico standard dell’industria fotografica,
finendo quasi col monopolizzare i listini. Nel 1907 venne progettato
un Tessar Apocromatico
e nel 1909 il dottor Wandersleb, che nel frattempo era stato messo a
capo della sezione ricerche della Carl Zeiss, dimostrò come adattare
il Tessar a varie
lunghezze focali, componendo la parte frontale dei gruppi ottici.
Tale scoperta costituisce una pietra miliare della storia dell’ottica
e rese possibile, alcuni anni dopo, la progettazione del Tele-Tessar,
attuata dal dottor Merte nel 1919. Il Tele-Tessar
entrò in produzione nel 1923 e divenne il teleobiettivo più
utilizzato nel periodo tra le due guerre mondiali. Nel frattempo a metà degli anni
Ottanta la salute di Carl Zeiss, ormai settantenne, comincia a
peggiorare. Alla sua morte, sopraggiunta il 3 dicembre 1888, la
direzione della società viene assunta da Ernst Abbe, il quale opera
una trasformazione radicale nella struttura societaria, dando vita ad
una Fondazione intitolata a Carl Zeiss, la Carl Zeiss Stiftung. Sono numerose le industrie fotografiche
che nel corso degli anni sono diventate famose per i propri prodotti
e per le innovazioni presentate. Fra tutte una soltanto ha avuto il
coraggio e l’originalità di assumere la forma giuridica di
Fondazione. Questa scelta ha comportato l’accettazione da parte di
tutte le società consociate degli stessi ideali, ponendo tra l’altro
le diverse società sotto il rigido controllo amministrativo degli
organi direttivi della Fondazione stessa. La forma scelta per la Fondazione Carl
Zeiss risolve automaticamente l’eterno dualismo tra capitale e
lavoro tipico di ogni società industriale. Lo scopo perseguito senza
esitazioni dalla Fondazione Carl Zeiss nasce dagli ideali della
ricerca scientifica e si basa sul benessere dei dipendenti. Il 19
maggio del 1889 viene ufficialmente creata la nuova Fondazione, che
assume di conseguenza personalità giuridica. Nello statuto della
Fondazione Carl Zeiss si trovano indicazioni precise sul rapporto fra
la dirigenza aziendale e il personale salariato. L’assunzione del
personale, per esempio, deve avvenire indipendentemente da
considerazioni etniche o religiose, mentre è proibito da parte
dell’azienda qualsiasi controllo extralavorativo sulla vita privata
dei dipendenti. Il primo aprile 1900 la Zeiss adotta la giornata
lavorativa di otto ore, già in uso da tempo in Inghilterra, ma che
rappresenta un’assoluta novità per la Germania. Nell’industria
tedesca dell’epoca una giornata lavorativa è infatti ancora
compresa tra le dieci e le dodici ore. Una seconda innovazione
riguarda i concetti di un salario aggiuntivo da corrispondere per il
lavoro straordinario e delle ferie pagate dall’azienda assegnando
ad ogni dipendente dodici giornate di libertà all’anno,
indipendentemente dall’anzianità lavorativa maturata. Nelle altre
industrie tedesche all’epoca viene ancora concessa una sola
settimana di ferie, ma solo al raggiungimento dei dieci anni di
anzianità lavorativa. Inoltre per i dipendenti Zeiss con almeno tre
anni di anzianità di lavoro viene accantonata un’indennità di
licenziamento. Tutte queste innovazioni non passano
inosservate, e Abbe viene accusato di essere un socialista.
L’Associazione degli Industriali Tedeschi critica aspramente le
scelte della Zeiss, vedendo in esse l’inizio dello sfaldamento dei
principi che regolano i rapporti di lavoro in Germania. La dirigenza
della Zeiss non solo replica dimostrando come la riduzione
dell’orario di lavoro si traduca in un incremento della
produttività reale, ma anche sostenendo che per ottenere il massimo
impegno lavorativo in vista della massima precisione occorre fornire
adeguati incentivi e legare le maestranze all’impresa in maniera
organica. Ai nostri giorni i principi su cui si basano queste
innovazioni sembrano ovvi, ma per la fine dell’Ottocento sono di
una portata sconvolgente tanto che l’Università di Jena arriva a
conferire ad Ernst Abbe una laurea di Giurisprudenza honoris causa.
In realtà per Abbe, che rimane il principale artefice della carta
costituzionale della Fondazione Zeiss, il lavoro non è sinonimo di
profitto, bensì di missione. La ricerca tecnologica e il prodotto
che deriva da questa devono essere divisi equamente tra tutti i
rappresentanti della società, a qualunque livello. Non a caso il
motto di Abbe è noi non apparteniamo soltanto a noi stessi
(Wir alle gehoeren nicht uns selber). Fedele sino in fondo alle sue
idee, Abbe lascia nel proprio testamento tutto il proprio patrimonio
all’Università di Jena. Tra tutte le realizzazioni di Abbe
certamente la stesura dello Statuto della Fondazione, che antepone
agli interessi individuali l’interesse collettivo della Fondazione
stessa rimane la sua opera più ammirata e visionaria. La stesura
definitiva dello Statuto della Fondazione viene pubblicata il 26 di
agosto 1896. In realtà la Fondazione Carl Zeiss è la Fondazione di
Abbe, nella quale egli riesce a trasferire una sintesi tra
razionalità ed ideali, creando un’impresa speciale ed immortale.
Ma non tutti la pensano come Abbe che estromette Roderich dalla
società perché vanta pretese di eredità sulla Fondazione. Abbe
vive malissimo il conflitto di interessi col figlio del vecchio
socio; viene colto da crisi nervose e soffre di insonnia, così
diviso tra affetti ed ideali. Dopo circa due anni di battaglie legali
Roderich si ricrede e decide di cedere definitivamente le proprie
azioni alla Fondazione. Il miracolo della Fondazione Carl Zeiss si
ripete almeno tre volte nel corso della storia e sopravvive al suo
stesso fondatore, che scompare nel 1905. Una prima volta al momento
della nascita, grazie ad un’impostazione coraggiosa e futuristica.
Una seconda volta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando
la Fondazione, pur esendo gravemente colpita nell’organico e nelle
strutture, e divisa ed umiliata dai vincitori, riesce a risorgere. La
terza rinascita è degli anni Settanta, quando la Fondazione, ormai
tagliata fuori dal mercato fotografico, riesce a trovare nuove
alleanze, nuovi prodotti e nuove nicchie di mercato. Si può dire che
la forza della Fondazione Carl Zeiss non risiede nella capacità
produttiva, cosa che la renderebbe molto simile ad altre centinaia di
aziende sparse nel mondo, bensì nello spirito che da sempre anima la
comunità degli uomini che la compongono. Dopo aver costruito e commercializzato
obiettivi fotografici di altissimo livello, gli Anastigmat, i Protar,
i Planar e gli Unar ed infine i Tessar, cedendoli alle maggiori
industrie fotografiche tedesche e straniere dell’epoca, all’inizio
del nuovo secolo i dirigenti della Fondazione Carl Zeiss decidono che
è giunto il momento per l’azienda di intraprendere in proprio
un’attività come costruttore di fotocamere, anche per promuovere
meglio la commercializzazione degli stessi obiettivi. La fotografia
rappresenta il naturale settore complementare degli interessi della
Zeiss. Paul Rudolph, il progettista delle formule ottiche che stanno
alla base dei più famosi obiettivi della Carl Zeiss di Jena, pone
così anche le basi del successo della Fondazione Carl Zeiss nel
campo fotografico. Inizia con il nuovo secolo un processo
di assorbimento di industrie fotografiche che porta, nel volgere di
poco più di venti anni, alla costituzione del più forte e
organizzato consorzio fotografico mai esistito, denominato Zeiss
Ikon. Il primo passo del cammino verso la
costituzione del consorzio Zeiss Ikon è l’acquisizione, nel 1902,
della società Palmos AG con sede nella città di Jena, la stessa
città dove ha sede la Fondazione Carl Zeiss. La società Palmos,
esistente fino dal 1900, produce accanto ad alcune fotocamere
fortemente innovative anche otturatori pneumatici con lamelle
metalliche con movimento a iride. La società viene ribattezzata Carl
Zeiss Palmosbau e prosegue nella costruzione delle fotocamere Palmos.
Le fotocamere Palmos si caratterizzano per aver abbandonato
l’otturatore frontale a favore di un otturatore a tendina sul piano
focale che arriva fino al millesimo di secondo. Nel 1909 vengono assorbite da parte
della società Carl Zeiss altre due industrie fotografiche di Dresda,
la società Emil Wuenske e la società Richard Huettig, che
attraversano una fase di forte crisi finanziaria, ma viene assorbita
anche la società Rudolf Kruegener di Francoforte sul Meno. Assieme
alla società Palmosbau, le quattro ditte vengono unite nella nuova
società Ica (International Camera Aktiengesellschaft) con sede a
Dresda. Due anni più tardi viene incorporata anche la società
svizzera G. Zulauf di Zurigo. Ognuna di queste società si
caratterizza per un’esperienza e una specializzazione particolare,
ed è alla somma di queste esperienze che la Fondazione Carl Zeiss
trae nuove energie e nuove ambizioni. Nel decennio successivo alla
costituzione della Ica la politica di assorbimento delle industrie
fotografiche in crisi finanziaria da parte della Fondazione Carl
Zeiss prosegue senza soste, arrivando ad incorporare società molto
importanti, come la Contessa Nettel di Stoccarda, la Heinrich
Ernemann di Dresda e la società Carl Paul Goerz di Berlino. Questa
politica di espansione della Carl Zeiss si rende possibile grazie
alla particolare congiuntura economica attraversata dalla Germania
nei primi anni Venti. All’indomani della Grande Guerra molte delle
industrie fotografiche presenti in Germania versano in gravi
condizioni finanziarie, a causa della terribile depressione e della
svalutazione. Le conseguenze della sconfitta militare sono
pesantissime e minacciano di dissanguare il paese. Nonostante la
buona reputazione delle fotocamere e degli obiettivi tedeschi sui
mercati internazionali, la situazione del mercato non è delle
migliori. Le diverse industrie tedesche si fanno concorrenza tra
loro, proponendo modelli di fotocamere che ripetono le tipologie
prebelliche e che sono praticamente identiche tra loro. Nessuna delle
industrie fotografiche dell’epoca possiede capitali sufficienti da
investire nella ricerca tecnica necessaria allo sviluppo di nuovi
prodotti. La Fondazione Carl Zeiss al contrario riesce ad essere
concorrenziale e a presentare bilanci in attivo, grazie alla
felice combinazione di ricerca, sviluppo e marketing. Guidata dalle
felici intuizioni di Abbe, dalla capacita commerciale di Zeiss, che
si è creato una notevole reputazione con i microscopi e grazie anche
alle scoperte scientifiche di Schott, la società Carl Zeiss è
riuscita a prosperare in maniera rapidissima. L’associazione alla Ica della Goerz
in conseguenza della morte del fondatore permette alla medesima Ica
di disporre di ottiche più economiche e meno complesse di quelle che
sono presenti nel catalogo Zeiss. Un destino diverso è quello della
società Contessa Nettel. Diretta dal dottor August Nagel la Nettel
presenta all’epoca gli stessi problemi economici delle altre
industrie fotografiche tedesche. Nel 1920 la Zeiss acquista senza
problemi una grossa fetta di capitale azionario della società,
lasciando che il dottor Nagel rimanga a capo della propria azienda.
Solo in seguito. Quando a Nagel viene rifiutato l’ingresso nella
direzione della Fondazione Carl Zeiss, quest’ultimo decide di
lasciare la società per mettere la propria esperienza e quel che gli
rimane della propria azienda a servizio della multinazionale
americana Kodak. La società Contessa Nettel si distingue nel
panorama industriale tedesco per una produzione di fotocamere di alta
qualità. Verso la fine del 1925 viene assorbita
dalla Fondazione Carl Zeiss anche la Ernemann, importante società,
costituita nel 1889 molto attiva nella costruzione di fotocamere,
otturatori ed obiettivi. Con l’assorbimento della Ernemann la
fondazione Zeiss non solo acquisisce un importante stabilimento per
la costruzione di fotocamere, ma si assicura i servizi del
progettista dell’obiettivo Ernostar, il dottor Ludwig Bertele.
Durante la lunga collaborazione con la Fondazione Carl Zeiss il
dottor Bertele disegna alcuni tra i più famosi obiettivi costruiti
dalla Carl Zeiss stessa, come i Sonnar, i
Biotar e i Biogon. Nell’agosto del 1926 viene costituita
ufficialmente la società Zeiss Ikon. Il nome IKON deriva dalla
parola greca immagine. La politica di acquisizioni continua anche
sotto il nuovo marchio. Alla fine degli anni Venti viene creato un
apposito management per il settore fotocamere, con la conseguente
esclusione di circa duecento modelli, ritenuti obsoleti o doppioni di
altri apparecchi in produzione e con una riduzione del catalogo a
circa cinquanta modelli di fotocamere. Questa razionalizzazione porta
anche alla produzione unificata di molte parti, con un notevole
abbassamento dei costi e un aumento della capacità produttiva. Sotto
la direzione amministrativa del Dott. Emmanuel Goldberg, un vecchio
dirigente della Ica e avvalendosi della direzione tecnica del giovane
Dott. Heinz Kuppelbender e per la parte finanziaria del Dott.
Simader, la Zeiss Ikon si avvia ad essere la società leader del
settore fotografico negli anni Trenta. Nessuna nicchia di mercato
viene trascurata dalla Zeiss Ikon, che negli anni Trenta arriva a
proporre fotocamere per tutti i formati e per tutte le tasche, unendo
ad una costruzione superlativa le caratteristiche ineguagliate delle
proprie ottiche. Una volta razionalizzata la produzione
delle consociate e dopo aver imposto il marchio Zeiss Ikon alle
fotocamere rimaste in catalogo, la Zeiss Ikon comincia a organizzare
un nuovo tipo di produzione: fotocamere pieghevoli (folding), a corpo
rigido ecc.. Nel catalogo del 1932 sono presenti fotocamere di
diversi tipi e formati, ma anche gli obiettivi Frontar,
Novar, Dominar,
Tessar e Biotessar, oltre ai più luminosi
Biotar e Sonnar,
oltre agli otturatori a lamelle Derval,
Telma, Kio e Compur
e agli otturatori a tendina per fotocamere di medio formato. Fra le
realizzazioni più ambiziose della Zeiss Ikon vi è quella di una
fotocamera in grado di togliere alla società concorrente Leitz il
monopolio sul formato 35mm. Il progetto della Contax, una nuova
fotocamera a telemetro di formato 35mm di altissima qualità e tale
da poter fare concorrenza alla Leica, è fortemente voluto dalla
dirigenza della Zeiss Ikon e trova la sua realizzazione grazie alla
genialità di Kuppelbender, che riesce a progettare una fotocamera
dalle prestazioni superiori a quelle della Leica senza infrangere
nessuno dei numerosi brevetti che la proteggono. Il gruppo
telemetrico, l’otturatore, il sistema di apertura del dorso, il
sistema di trascinamento del film, l’innesto degli obiettivi
intercambiabili, sono tutti problemi che vengono risolti grazie a
sistemi assolutamente originali, anche se complessi. Kuppelbender è
indubbiamente il principale artefice del progetto Contax, come
risulta dalle numerose richieste di brevetto, tutte firmate con il
suo nome. Invece i vari accessori vengono progettati da una equipe
Zeiss costituita appositamente e distaccata esclusivamente per il
sistema Contax. Molti degli obiettivi della Contax vengono progettati
di sana pianta da Bertele. Avremo modo di ritornare su questo
particolare prodotto parlando della Leica. Durante gli anni Trenta la politica di
acquisizioni della Fondazione Zeiss continua, anche al di là delle
industrie fotografiche, arrivando al controllo diretto o indiretto di
parecchie società importanti. Agli albori degli anni Quaranta la
Zeiss Ikon produce anche diversi tipi di pellicole pancromatiche in
rullo con sensibilità 17 o 21 DIN. Alla produzione delle fotocamere
si affianca la produzione dei proiettori, delle cineprese, dei
proiettori cinematografici e perfino degli esposimetri. Con il
procedere incalzante della Seconda Guerra Mondiale, inizialmente
favorevole alla Germania, una parte dell’attività produttiva della
Zeiss Ikon viene decisamente dirottata verso la produzione militare.
Anche per queste scelte la guerra significa per la Zeiss Ikon
l’accantonamento di molti interessanti progetti fotografici. Dopo
il 1941, con il nuovo andamento delle operazioni militari, si
verifica una grave mancanza di materie prime, con un drastico
ridimensionamento della produzione civile, mentre la sede di Jena
della Carl Zeiss diventa un importante obiettivo militare, soggetto
ad attacchi aerei a partire dal 1943. La definitiva sconfitta
militare modifica profondamente la storia della Germania e la stessa
storia della Fondazione Carl Zeiss ne viene profondamente
influenzata. Ricostruire l’esatta consistenza della produzione
prebellica risulta estremamente difficoltoso per la perdita quasi
totale degli archivi della Zeiss Ikon, ma anche quelli conservati a
Dresda, quasi completamente distrutti nel 1945 quando la sede della
società, nel vecchi stabilimento della Ica, viene quasi
completamente seppellita sotto le bombe. A causa del massiccio
impiego di bombe incendiarie, dell’immensa quantità dei documenti
conservati negli archivi Zeiss non rimane praticamente nessuna
traccia. In base a ricostruzioni recenti, e grazie al contributo di
numerosi collezionisti e ricercatori, è stato possibile stilare una
cronologia plausibile dei numeri di serie delle fotocamere Zeiss Ikon
del periodo fra le due guerre. L’otto di maggio del 1945, proprio
nell’ultimo giorno della guerra, le truppe sovietiche entrano nella
città di Dresda, ovvero in ciò che ne è rimasto dopo i feroci
bombardamenti, i più massicci di tutto il conflitto, che hanno raso
al suolo praticamente tutto il centro urbano. La città di Dresda,
che sembrava godere di una tacita immunità dai bombardamenti grazie
al su status di città d’arte, al pari di Firenze, e che aveva
attratto una gran parte della popolazione civile sfollata da altre
città a rischio, viene sottoposta negli ultimi mesi del conflitto a
una serie di bombardamenti alternati, messi in atto di giorno e di
notte rispettivamente dalle aviazioni americana e inglese. Quando il
13 aprile 1945 le truppe americane entrano in Jena, con loro grande
sorpresa scoprono che le loro previsioni circa gli effetti dei
bombardamenti sono errate e le distruzioni arrecate devono essere
notevolmente ridimensionate. Gli stabilimenti Carl Zeiss, oggetto di
accurati bombardamenti alleati, in quanto considerati obiettivi
primari di produzione bellica, secondo i calcoli americani sarebbero
stati distrutti al novanta per cento con una produzione pari a zero.
In realtà al momento dell’arrivo delle truppe di occupazione, la
Carl Zeiss funziona ancora al sessanta per cento, con una perdita di
produttività di circa il trenta per cento. Prima del ritiro, poiché
Jena risulta essere nella zona di influenza sovietica, il colonnello
Hubert Zemke organizza il trasporto di circa ottanta fra ricercatori
e tecnici della Carl Zeiss e di una quarantina di dirigenti delle
vetrerie Schott, con le rispettive famiglie, nella zona Ovest. In
questo modo un importante nucleo di progettisti e tecnici qualificati
viene messo in grado di ricostruire la prestigiosa industria ottica
tedesca. I tecnici della Zeiss selezionati da Zemke vengono
letteralmente costretti a seguire gli Americani, mentre molti altri
dipendenti Zeiss, per orgoglio o per scelta, rifiutano fermamente di
trasferirsi all’Ovest e rimangono nelle loro residenze. Come sede
di produzione viene scelta la vecchia fabbrica della Contessa Nettel,
situata a Stoccarda, miracolosamente rimasta intatta dopo le
distruzioni belliche. Per la nuova sede principale della Fondazione
Carl Zeiss viene invece scelta la vicina cittadina di Oberkochen. La
Fondazione Carl Zeiss rinasce ufficialmente il 23 febbraio del 1949.
Per individuare la produzione ottica realizzata all’Ovest viene
utilizzato provvisoriamente il marchio Zeiss Opton, un marchio la cui
origine non è mai stata chiarita e che vede la luce il 10
marzo 1947. Nel luglio 1945 le truppe
americane che occupano Jena cedono il posto, in base agli accordi di
pace, alle truppe sovietiche. Questi avvenimenti significano per le
industrie Zeiss Ikon e Carl Zeiss Jena l’inizio di un nuovo periodo
produttivo, caratterizzato da incertezze e ambiguità. Gli
stabilimenti Zeiss Ikon di Dresda sono stati praticamente distrutti
la sede della ex Ernemann ha subito per fortuna danni minori. Gli
stabilimenti di Jena si trovano in condizioni non molto diverse. Le
truppe sovietiche, come risarcimento dei danni di guerra stanno
svuotando i magazzini e si apprestano a smontare perfino i macchinari
relativi alla produzione delle ottiche e soprattutto delle fotocamere
Contax, per trasferire la produzione ottica a Krasnogorsk, vicino a
Mosca e quella delle fotocamere a Kiev, in Ucraina. La situazione è
dominata dalla precarietà, accentuata dalla proclamazione
nell’ottobre 1949 della nascita di un nuovo stato tedesco, la DDR ,
in opposizione alla proclamazione, nel settembre del medesimo anno
della Germania Federale, con la quale la divisione si fa sempre più
netta. In questa situazione la Zeiss Ikon di Dresda si trova ad un
bivio. Mentre le industrie ottiche Carl Zeiss di Jena continuano
nella produzione di obiettivi e mantengono buoni rapporti da una
parte con la consorella di Stoccarda a dall’altra con i nuovi
governanti, la Zeiss Ikon viene posta sotto il controllo statale e
trasformata in Veb Zeiss Ikon che nel 1964 diverrà Veb Pentacon.
Utilizzando alcune parti già lavorate nel periodo del conflitto e
rimettendo in moto le attrezzature superstiti viene avviata una
produzione ridotta di fotocamere Contax, che vengono siglate con il
marchio Carl Zeiss Jena. Le Contax Jena sono facilmente riconoscibili
dalla produzione prebellica perché vengono rifinite semplicemente in
cromatura opaca e non satinata, come le fotocamere costruite fino al
1939 e portano la scritta “Carl Zeiss Jena” incisa sulla slitta
porta accessori, mentre il modello prebellico porta la scritta “Zeiss
Ikon”. La produzione di queste fotocamere inizia nell’ottobre
1945 e prosegue fino ai primi mesi del 1948, quando il trasferimento
della linea Contax viene completato. Le Contax verranno prodotte in
Ucraina col nome Kiev anche se con notevole diversità di finiture. La rinascita del marchio Carl Zeiss si
rende possibile grazie ai massicci investimenti americani e alle
agevolazioni offerte dal nuovo governo tedesco. Il processo di
ricostituzione della Carl Zeiss attorno alla nuova dirigenza,
costituita ancora da Kuppelbender e altri, presenta aspetti tali da
suscitare meraviglia. Pur essendo la più danneggiata fra le
industrie fotografiche tedesche la Zeiss Ikon presenta la nuova
Contax già alla prima Photokina, nel maggio del 1950 e nel giro di
un decennio ristabilisce la propria rete commerciale, arrivando ad
esportare regolarmente i propri prodotti in più di 150 paesi.
Nello stesso anno 1950 viene presentata, quasi in antitesi alla
Contax, la fotocamera Contessa, fornita di ottica fissa Tessar, ma
anche di telemetro ed esposimetro. Con l’ingresso nel nuovo decennio la
società Zeiss Ikon mette in atto in maniera irreversibile la
decisione di eliminare dalla produzione tutte le fotocamere di medio
formato, pieghevoli e biottica, per concentrare tutti i propri sforzi
sulla produzione di fotocamere 35mm. Questa scelta è comune ad altre
industrie, come Voitglaender, mentre Rollei continua a difendere la
superiorità del medio formato, almeno per un’altra decina d’anni.
La scelta di concentrare tutte le energie produttive sul formato 35mm
è giustificata dalla nascita del sistema Contarex e dallo sviluppo
del sistema Contaflex, ma non porta alla nascita di nuove fotocamere
da 35mm più economiche, la cui produzione viene ridotta fino alla
completa eliminazione già a metà del decennio. Quello che invece
non cambia è la politica di assorbimento di nuove industrie
fotografiche sotto il controllo della Fondazione Carl Zeiss. A metà
del decennio la Fondazione arriva a controllare una serie di società
diverse, dalle tradizionali produttrici di vetro ottico, di obiettivi
e di otturatori, fino all’ultima delle consociate, la ex
concorrente Voigtlaender di Braunshweig, ben nota per la produzione
ottica e di fotocamere, di cui la Fondazione Carl Zeiss acquista il
pacchetto azionario nel 1956 dalla Shering AG di Berlino che lo
detiene già dal 1924. A fronte di una situazione complessivamente
favorevole, si registrano tuttavia dei notevoli sbilanci economici
proprio nel settore delle fotocamere. Fra tutte le aziende
controllate direttamente o indirettamente dalla Fondazione Carl
Zeiss, la società Zeiss Ikon è quella che registra le perdite
finanziarie di maggiore entità ed anche la società che registra i
passivi più costanti nel tempo. Di fronte a costi produttivi enormi
la società Zeiss Ikon non riesce da anni ad ottenere riscontri
positivi sui mercati internazionali. La produzione fotografica
offerta dalla Zeiss Ikon si compone di diversi sistemi fotografici da
35mm, incompatibili fra di loro e che spesso vengono presentati
contemporaneamente e in diretta concorrenza sugli stessi mercati.
Questa anomalia è presente in maniera costante, ma si accentua negli
anni Cinquanta e Sessanta. L’eccessivo proliferare di fotocamere e
di sistemi ottici è una costante che segue la storia della Zeiss
Ikon come un destino ineluttabile. Al momento della nascita della
Zeiss Ikon, nel 1926, lo stesso problema aveva richiesto un
drammatico quanto immediato intervento, con l’eliminazione di
decine di modelli di fotocamere e di obiettivi dalla produzione. Lo
stesso fenomeno si ripete negli anni Cinquanta e Sessanta come in una
nemesi storica. Dall’incredibile affermazione commerciale dei primi
anni Cinquanta al crollo verticale degli ultimi anni Sessanta la
Zeiss Ikon colleziona tutta una serie di errori di strategia, che
solo in parte sono imputabili all’inarrestabile concorrenza delle
industrie fotografiche giapponesi, dinamiche e competitive, ma
qualitativamente meno affermate. Al di là delle considerazioni di
strategia commerciale, il motivo determinante del fallimento della
Zeiss Ikon rimane nel fatto che la società, mentre mantiene in
attivo tutte queste diverse linee produttive, non dispone più dei
capitali da investire nell’ammodernamento degli impianti. Gli
stessi impianti produttivi, modernissimi negli anni Cinquanta, non lo
sono più a metà degli anni Sessanta. Il processo produttivo della
Zeiss Ikon si rivela lento ed antieconomico e se a ciò si aggiunge
la differenza di costi tra manodopera giapponese e quella tedesca,
l’abisso si rivela incolmabile. A posteriori si rivela un errore
anche l’eccessivo accanimento della Zeiss Ikon nella costruzione di
fotocamere reflex monobiettivo con otturatore centrale, come le pur
pregevoli Contaflex. Questa scelta è sicuramente motivata dal fatto
che le società Gauthier e Deckel, i principali produttori tedeschi
di otturatori a lamelle, sono all’epoca controllate dalla
Fondazione Zeiss. Del resto alla nascita delle Contaflex nei primi
anni Cinquanta, la superiorità dell’otturatore a tendina non è
stata ancora sufficientemente dimostrata, mentre l’affidabilità
dell’otturatore centrale si è dimostrata preziosa, specialmente
con l’uso del flash elettronico sincronizzato. Il successo delle
Nikon e delle Leicaflex, delle Canon e delle stesse Contarex non
scalfiscono il muro di certezze dei sostenitori degli otturatori a
lamelle. La superiorità definitiva degli otturatori a tendina si
afferma negli anni Settanta con il controllo elettronico delle
velocità, una novità che viene presentata, per ironia della sorte,
proprio da una fotocamera firmata Zeiss Ikon, la notissima Contarex
SE. La mancata razionalizzazione di
un’eccessiva gamma nell’offerta di fotocamere ed obiettivi, le
infinite varianti di combinazioni fra obiettivi e otturatori, un
mercato particolarmente feroce e competitivo, gli investimenti enormi
ed economicamente improduttivi per ogni nuova linea di fotocamere,
finiscono con il rendere disastrosi i bilanci della Zeiss Ikon già
negli ultimi anni Sessanta. La decisione del gruppo direttivo della
Fondazione Carl Zeiss di chiudere la Zeiss Ikon diventa quindi
semplicemente inevitabile. Il sistema Contarex, l’ultimo dei
capisaldi della Zeiss Ikon, viene studiato e sviluppato in maniera
testarda e miope, totalmente svincolata dalle reali condizioni del
mercato e senza considerare la nicchia di mercato, relativamente
piccola a cui le Contarex si rivolgono. Senza alcun riguardo per gli
astronomici costi produttivi viene creato un sistema fotografico
assoluto completato da obiettivi che sicuramente rappresentano
l’ultimo esempio di prodotto industriale costruito ancora con
sistemi artigianali. Per l’ultimo modello messo in produzione la
Contarex SE, le componenti elettroniche vengono sviluppate
interamente in casa Zeiss anziché essere appaltate a ditte
specializzate. Molte energie preziose ed indispensabili, sicuramente
utilizzabili in maniera diversa, vengono così ulteriormente
sprecate. Immediatamente prima dell’annuncio della chiusura del
reparto fotocamere, alla Photokina del 1970, la Zeiss Ikon presenta
alcune interessanti fotocamere, una reflex e una compatta 35mm la
Zeiss Ikon SL 706 e la Contessa S310 che nel 1972, per pochi mesi,
viene messa in produzione in versione modificata con l’aggiunta di
un piccolo telemetro e viene battezzata con la sigla S312. Nonostante i generosi tentativi,
decisamente tardivi, di rinnovare la propria immagine sui mercati e
di ringiovanire la propria produzione, la Zeiss Ikon non riesce ad
evitare la capitolazione. Per poter continuare a vendere la
produzione di fotocamere giacenti in magazzino la Fondazione Carl
Zeiss crea nel 1972 una nuova società commerciale, denominata Carl
Zeiss Contarex Vertrieb e destinata alla gestione delle rimanenze.
Circa trecento corpi Contarex vengono marchiati con il solo nome Carl
Zeiss, diventando delle autentiche rarità collezionistiche. La nuova
società Carl Zeiss Contarex Vertrieb conclude la propria attività
nel 1975.
Gli artefici del mito Leica
Ernst Leitz (1843-1920), figlio di un
insegnante, era un ingegnere ed un progettista di talento con
esperienza. Il suo apprendistato si era svolto presso fabbriche di
strumenti di precisione e laboratori di ottica nel sud della
Germania, in Svizzera, in Francia. Ad Ernst Leitz, che godeva anche
di una raccomandazione e della stima del suo precedente datore di
lavoro Matthaus Hypp, celebre fabbricante svizzero di orologi, fu
subito offerto un posto all’Optisches Institut fondato da Carl
Kellner. Immediatamente dopo il suo arrivo a Wetzlar sede
dell’Optisches Institut, nel 1864, Leitz si cimentò nel difficile
e delicato compito di ridurre le tolleranze di produzione nei
microscopi. Questo meticoloso impegno a favore della precisione, così
importante nella progettazione e nella fabbricazione di strumenti
scientifici, fu ricompensato dall’offerta di una partecipazione
azionaria nella ditta, già l’anno successivo alla sua assunzione
da Friedrich Bethle (1828-1869) che, assistente di Kellner ne sposò
la vedova. Alla morte di Bethle Leitz divenne l’unico proprietario.
La ditta Leitz fu fondata nel 1869 da Ernst Leitz con il nome
di Optisches Institut von Ernst Leitz (Istituto Ottico di Ernst
Leitz). Inizialmente si occupò esclusivamente della fabbricazione di
microscopi, che gli scienziati di tutto il mondo stavano cominciando
ad usare per le ricerche sui microbi. Le attività dell’Istituto
divennero sempre più complesse e diversificate, in relazione alla
maggiore varietà di apparati scientifici prodotti. La seconda metà
del secolo, in particolare, vide un considerevole incremento nella
fabbricazione e vendita di attrezzature per la fotografia, che
comparvero a listino per la prima volta nel 1885 con l’introduzione
di una camera per microfotografia orizzontale, di grande formato. La
costruzione artigianale fu abbandonata a favore di una più rigorosa
progettazione. A questo scopo fu assunto anche un progettista come
Carl Weber. L’interesse di Leitz per la scienza e la tecnologia lo
portò all’abitudine di offrire, come riconoscimenti celebrativi
per istituzioni o singoli ricercatori che si fossero particolarmente
distinti, microscopi dal numero di matricola particolarmente
significativo. (es. il n. 50.000 al Sanatorio per la Tubercolosi,
Davos nel 1899, il n. 100.000 al Prof. Robert Koch nel 1907 ecc.).
Con il trascorrere degli anni Ernst Leitz fu affiancato nella sua
impresa dai due figli Ludwig (1867-1899) ed Ernst Leitz II
(1871-1956). Fu merito loro se si attuò una diversificazione dei
prodotti e Ludwig in particolare fece molto per sviluppare a Wetzlar
la microfotografia. Nel 1911 Ernst Leitz II assunse un
giovane ingegnere della Zeiss, Oscar Barnack. Barnack era nato a
Brandeburgo nei pressi di Berlino nel 1879 ed a Berlino aveva fatto
il suo apprendistato prima di essere assunto dalla Zeiss. Quando
Leitz gli offrì un posto di lavoro Barnack inizialmente rifiutò,
dicendo che pensava che non sarebbe stato nell’interesse della
ditta assumere un giovane che avrebbe dovuto familiarizzare con una
varietà di nuovi compiti e la cui scarsa salute (era affetto da
asma) avrebbe comportato di necessità uno o due mesi di assenza
all’anno. Considerando lo stato di salute di Barnack, Ernst Leitz
II (allora al vertice dell’azienda) inizialmente gli offrì una
settimana di prova. Subito dopo l’incarico fu però confermato come
permanente. Fin dall’inizio, i rapporti tra Barnack ed Ernst Leitz
II furono eccellenti. L’ingegner Barnack aveva un carattere
tranquillo e modesto molto simile a quello di Leitz. Fu Leitz a
trovare la casa per Barnack, sua moglie Emma, sua figlia Hanna e suo
figlio Conrad, al numero 22 di Bruhldtrasse, a Wetzlar. La casa era
in una posizione ben protetta dai freddi venti invernali del nord
della Germania, per quanto alla fine della sua vita proprio a questi
Barnack dovette soccombere. La carriera di Barnack fu rapida: entro
un anno divenne capo del reparto di ricerca e sviluppo per i
microscopi, all’Istituto. Tenendo conto del peso che avrebbe avuto
Barnack in futuro, sia rispetto allo sviluppo delle idee di Leitz sia
nei riguardi dell’evoluzione generale della fotografia, vanno
considerati con interesse i suoi primi esperimenti con una
fotocamera. A proposito della convinzione di
Barnack di sviluppare il progetto per un nuovo tipo di macchina
fotografica il figlio Conrad scrive: Posseggo ancora la fotocamera Nettel
13x18 a lastre con la quale mio padre scattò le sue fotografie dal
1903 al 1912; proprio questo apparecchio, con il suo considerevole
peso, indusse mio padre a cominciare a pensare di costruire qualcosa
di più piccolo. La vecchia Nettel è solo un corpo, senza obiettivo.
Comunque è davvero un esemplare unico di Nettel. In origine era una
9x18 stereo Nettel, ma poi mio padre la trasformò in una 9x12,
modificando la piastra portaobiettivi. Poi applicò una specie di
dorso adattatore piramidale…, modificò il piatto della piastra
portaottica per migliorare la trasmissione della luce e usò lastre
13x18 con la procedura che poi descrisse nel volume How the Leica
began, provando ad utilizzare ottiche di più corta focale e ad
impressionare si di una medesima lastra numerosi scatti differenti.
L’esperimento non ebbe successo, nondimeno egli poteva alternare
fotogrammi 13x18 o 9x12 o stereo e ciò era quanto al momento gli
interessava. Non credo che all’epoca esistesse una qualsiasi altra
realizzazione similare. Conrad Barnack allude qui ad uno dei
motivi per cui il padre fu riconosciuto come il pioniere di un nuovo
tipo di fotocamera: la sua fragile costituzione, in quegli ultimi
giorni della sua vita, rendeva particolarmente penoso il trasporto
delle pesanti lastre fotografiche. Per questo Barnack progettò una
fotocamera che potesse scattare numerose immagini di minore formato
sulla stessa lastra. L’idea non era, comunque nuova. Il sistema
usato da Barnack era molto simile a quello adottato dai fotografi che
scattavano le cosiddette cartes de visite fotografiche. La differenza
era nel fatto che questi ultimi utilizzavano apparecchi con più
obiettivi per produrre diverse immagini, la soluzione di Barnack
andava nel senso di produrre più fotogrammi con uno stesso
obiettivo. Sfortunatamente la notevole grana che caratterizzava le
lastre di un tempo portava a negativi dalla qualità scadente.
All’epoca comunque, non fu tanto la microfotografia ad attirare
l’attenzione di Barnack sullo sviluppo della fotografia e delle
macchine fotografiche, quanto piuttosto la cinematografia. Fu proprio
disegnando e progettando una cinepresa la cui struttura era quasi
completamente in metallo (allora gli apparecchi cinematografici erano
ingombranti e costruiti in gran parte in legno) e considerata anche
la non costante qualità della pellicola allora disponibile che
necessitava di un test esposimetrico prima di ogni ripresa
cinematografica, che convinse Barnack a disegnare uno strumento
compatto, tascabile, che accettasse la pellicola cinematografica, con
il quale fosse agevole eseguire una serie di esposizioni a diverse
aperture di diaframma. Fu in pratica la necessità di saggiare un
nuovo tipo di esposimetro che portò Barnack a rispolverare la
vecchia idea di costruire una macchina fotografica destinata ad un
piccolo formato di negativo. Comunque, quando egli inizialmente
disegnò il suo esposimetro, la realizzazione di stampe tratte da
negativi-test di tipo cinematografico, di 18x24mm, era troppo piccolo
per fornire accettabili esposizioni di prova e naturalmente tanto
meno stampe-test soddisfacenti. La conseguente decisione di
raddoppiare il formato, portandolo a 24x36mm, lo condusse a disegnare
quella che poi divenne nota come fotocamera UR. Il modello UR, la prima fotocamera 35mm
di Oscar Barnack, venne costruito intorno al 1912-1913,
contemporaneamente alla sua cinepresa tutta in metallo. Lo scafo
ricalcava le tendenze della maggior parte delle fotocamere per
pellicola in rullo dell’epoca, come ad esempio la Vest-Pocket
Kodak. Barnack ovviamente disegnò la sua fotocamera come apparecchio
dal fotogramma doppio rispetto al consueto fotogramma cinematografico
(che era di 18x24mm). Come otturatore Barnack adottò un sistema a
tendina su rulli, accoppiato al meccanismo di avanzamento della
pellicola. E’ ancora interessante notare che il formato originale
ideato da Barnack fu di 24x38mm, corrispondente alla lunghezza di
otto perforazioni della pellicola, senza spazio interfotogramma tra
un’immagine e la successiva. In seguito, per creare un minimo di
margine tra un negativo e quello seguente, Barnack ridusse la
lunghezza del formato a 36mm e fu così che nacque il leggendario
formato 24x36mm. La UR è senza dubbio l’antesignana di tutti i
modelli Leica. E’ certamente difficile dire se la UR sia stata
ideata pensandola più in ruolo di fotocamera piuttosto che di
esposimetro. E’ comunque certo che Ernst Leitz II fu molto
interessato alla fotocamera UR e, il 12 giugno 1914, fece richiesta
di brevetto. Barnack avrebbe voluto che la sua macchina fosse
brevettata con il nome di Lilliput, ma questa denominazione era già
in uso per un modello costruito da Ernemann. La richiesta di Leitz fu
rifiutata anche perché alcune caratteristiche che desiderava
brevettare erano già state introdotte dalla Zeiss nella fotocamera
Palmos nel 1904. Leitz dovette accontentarsi, per il suo modello UR,
della dicitura DRGM (brevetto in attesa di registrazione). In
seguito, quando il primo modello di fotocamera firmata Leica apparve
sul mercato (1925), fu brevettato con successo dalla Leitz. ra lo sviluppo del prototipo UR di
Barnack (numero 1) e la comparsa del primo modello Leica 35mm
prodotto in serie nel 1925, si sa che sono stati realizzati almeno
altri due modelli sperimentali. Il numero 2 è andato perso e di esso
non si ha nemmeno una fotografia, nonostante siano state annotate le
sue caratteristiche di base. Il modello numero 3 fu sviluppato tra il
1918 ed il 1920; tale modello è conservato nel museo della casa
madre assieme al numero 1. Un ulteriore passo avanti fu poi
compiuto nel 1923-1924, quando venne decisa l’introduzione e la
commercializzazione delle fotocamere Leica della serie 0. Il modello
UR numero 3, con il suo otturatore a fessura variabile per diversi
tempi di esposizione, fu certamente il riferimento cui si ispirarono
le macchine della serie 0. Queste ricalcavano lo stesso progetto,
salvo piccole differenze. Mentre le UR e comunque la UR n. 3, avevano
un trascinamento pellicola da rocchetto a rocchetto, le macchine
serie 0 furono dotate di un sistema da caricatore a rocchetto. Questo
particolare significa che la pellicola poteva essere caricata e
scaricata alla luce. A questo punto deve essere presentato
un nuovo personaggio. Il compito di progettare le ottiche fu infatti
affidato a Max Berek. Così come Barnack raggiunse notevoli traguardi
facendo evolvere il progetto Leica sotto l’aspetto ingegneristico,
Berek sviluppò la parte ottica. In effetti il lavoro di Berek fu
davvero complementare a quello di Barnack, sia sotto l’aspetto
progettuale sia per favorire quello di successo commerciale della
Leica. Berek era nato nel 1886 a Ratisbona in Slesia. Nel 1911 gli fu
riconosciuto il dottorato dall’Istituto di Mineralogia di Berlino,
per la sua tesi Kristalloptik (obiettivi in vetro). L’anno
successivo Berek fu assunto dalla Leitz, come assistente scientifico.
Fu il principale progettista della maggior parte delle ottiche per le
fotocamere create da Barnack. Il primo obiettivo fu quello
appositamente disegnato per coprire il formato 24x36mm del modello
UR; di questo fu brevettata nel 1920 una versione migliorata, a
quattro lenti, che si ritiene sia stata la base per il leggendario
Elmar f/3.5 da 5cm. Berek disegnò le ottiche per la serie 0 ed in
seguito tutta una gamma di famosi obiettivi per vari modelli Leica,
fino alla sua morte, avvenuta a Friburgo, nel 1949. Fu Ernst Leitz II (il cui padre era
morto nel 1920) che decise di dare seguito alla fabbricazione della
serie 0 (modelli del 1923-1924) avviando la produzione di una nuova
fotocamera 35mm costruita in serie. Fu una decisione coraggiosa per
diverse ragioni: la Leitz non era rinomata principalmente come
fabbricante di fotocamere, come invece era la Zeiss (che avrebbe a
suo tempo presentato la fotocamera Contax che fu la maggior rivale
della Leica); inoltre le stampe ottenute con i prototipi Leica, anche
con quelli della serie 0, non proponevano una qualità assimilabile a
quella che si otteneva con più semplici e più economici apparecchi
(come il modello Kodak Vest Pocket, che beneficiava di un negativo
considerevolmente più grande). Un altro punto critico era dato dalla
pellicola 35mm, che non soltanto era più difficile da trovare, ma
richiedeva considerevoli acrobazie nel procedimento di caricamento
(la Leica veniva caricata dal fondello della macchina, come ancora
oggi e ciò richiedeva un’attenzione manuale più accurata che
nelle altre fotocamere). Infine la Leica non era, in pratica, nemmeno
la prima macchina 35mm, ma forse, effettivamente, il successo della
Leica fu principalmente dovuto ai fattori addotti da Barnack: a
differenza di altri apparecchi, la Leica era piccola e per di più
facile da maneggiare. Dopo che Leitz prese la decisione di
avviare la produzione in serie, ecco che nel 1924 iniziò la
fabbricazione del modello I. Nell’anno successivo la macchina fu
pronta per essere lanciata sul mercato. Il primo apparecchio che
lasciò la fabbrica era contraddistinto con il solo nome del
fabbricante. Come abbiamo visto, il nome Lilliput che Barnack avrebbe
voluto non poteva essere impiegato perché era già stato brevettato
da Ernemann. Leitz stesso propose il nome di Barnack Camera, ma
Barnack era poco conosciuto al di fuori di Wetzlar ed il suo nome non
era facilmente pronunciabile in diverse lingue. Finalmente fu
proposta una combinazione delle prime lettere di Leitz e camera,
nacque così il nome Leica. Il modello Leica I che finalmente
apparve sul mercato era un apparecchio quasi senza difetti, il
risultato di diversi anni di ricerca. Per quanto avesse richiesto a
Barnack più di tredici anni di studi per perfezionare l’otturatore
sul piano focale (il cuore della Leica), il progetto e le principali
caratteristiche della macchina non erano stati fondalmente cambiati
passando dai prototipi UR alla serie 0, e più tardi al modello I.
Come la UR e le sue discendenti, la nuova Leica si basava sull’uso
di una pellicola cinematografica e su ottiche da cinematografia. La
Leica I fu presentata nel 1925 alla Fiera di Primavera di Lipsia. Fu
recensita entusiasticamente dalla stampa fotografica di allora, che
però alla fine si orientò sulla dubitativa conclusione che essa
fosse un ennesimo tentativo, tra i tanti di breve durata, di produrre
una macchina di piccolo formato. Nonostante ciò, alla fine del 1925
era stato già venduto un migliaio di apparecchi Leica, un risultato
notevole per un nuovo modello, anche se questa quantità era
considerevolmente ridotta se confrontata con la produzione della Ica,
pari a circa sessantamila macchine all’anno. Alla Fiera di
Primavera di Lipsia del 1930, fu introdotto un nuovo modello con
possibilità di intercambiare l’ottica. Inizialmente furono
disponibili soltanto due obiettivi supplementari , il 35mm ed il
135mm Elmar, ma più avanti la gamma fu allargata. L’importanza di
queste alternative non standard deve essere presa in attenta
considerazione quando si valuta la fenomenale popolarità che arrise
alla Leica: la telefotografia con una macchina fotografica tenuta in
mano era diventata possibile. Per quanto i teleobiettivi esistessero
fino dal 1880, la loro limitata apertura massima (luminosità) aveva
sempre obbligato all’impiego di un treppiede. Per di più, le
ottiche di focale tele avevano sempre mostrato una scarsa definizione
ai bordi. L’Elmar 135mm era invece un obiettivo lungo fuoco,
progettato per coprire un angolo di 60°, che era indispensabile per
fotocamere a lastre 9x12cmm. Poiché invece l’ottica veniva usata
per coprire una porzione di negativo pari a 2.4x3.6cm, la definizione
agli angoli era eccellente. Analogamente, la possibilità di disporre
del 35mm Elmar aprì nuove opportunità di ripresa nel campo della
fotografia di paesaggio, va notato infatti che fino alla comparsa
dell’Elmar 35mm gli obiettivi tendevano ad essere di limitata
apertura massima, dunque inadatti alla fotografia a mano libera. La
leica I fu presa a modello in tutti i successivi progetti per
fotocamere e l’ottica standard Elmar 50mm ebbe un peso
rilevante e seppe imporsi come pietra di paragone su tutti gli altri
obiettivi. L’introduzione di una Leica, con
mirino a telemetro accoppiato, il modello II del 1932, rese più
facile e popolare l’impiego di ottiche non standard (in particolare
i teleobiettivi). Mentre il modello Leica I equipaggiato con il
telemetro separato (posto sulla slitta porta accessori) era difficile
da usare, l’impiego della versione II era senz’altro alla portata
dei sempre più numerosi fotoamatori evoluti, un pubblico già
consistente nel 1930. A partire dal 1932 le pellicole per di più
furono disponibili in caricatori preconfezionati e si superò così
anche la difficoltà di una laboriosa e non facile operazione di
caricamento al buio delle cassette portapellicola (i caricatori fino
ad allora usati). Perutz fu il primo produttore di pellicola a
proporre il film preconfezionato in caricatori. All’inizio la
sensibilità delle pellicole era molto bassa, corrispondente a circa
4 ASA più tardi fu incrementata fino a 32 ASA. Dal 1930 anche le
altre case produttrici introdussero le loro pellicole Leica. Inoltre
Perutz, che era il leader in questo campo, sfidò ulteriormente i
suoi concorrenti, presentando pellicole con impressa la numerazione
dei singoli fotogrammi. Da allora in poi, tutti i fabbricanti di
film, nel mondo, offrirono un’ampia gamma di pellicole, di diverse
sensibilità. Numerosi altri obiettivi ed accessori,
seguirono la presentazione del modello II nel 1932 e consolidarono la
posizione guida che la Leica aveva ormai assunto nel mercato delle
macchine di piccolo formato. L’idea di Barnack di una costruzione
modulare e razionale dunque aveva avuto successo, anche di vendita. I
possessori di apparecchi Leica non temevano l’obsolescenza dei loro
strumenti ed i miglioramenti via via apportati nei nuovi modelli
potevano sempre essere trasferiti su quelli vecchi. Una Leica I
poteva essere trasformata in una Leica II (pur conservando la
matricola originale). Gli apparecchi Leica ed i loro accessori erano
costosi, ma erano fin dove possibile progettati per essere
polifunzionali. Ad esempio un obiettivo Elmar f/3.5-5cm poteva essere
usato come ottica da ripresa per una fotocamera Leica, come ottica da
riproduzione per un dispositivo repro, come ottica per ingranditore o
come ottica da proiezione. Questa filosofia di progettazione
polifunzionale fu in notevole misura responsabile della crescita e
della popolarità del sistema Leica. Una Leica non invecchiava e
molti dei pezzi del suo corredo potevano essere usati per diversi
scopi. Quando nel 1936 morì Oscar Barnack, il
padre della Leica, ci sarebbe stata da aspettarsi una battuta
d’arresto delle nuove progettazioni ed innovazioni tecniche. Ma non
fu così. Un giovane e brillante ingegnere, Wilhelm Albert, che era
stato assunto alla Leitz nel 1928 e che aveva lavorato da tempo
nell’ombra, dopo la morte di Barnack scese in campo con una serie
di nuove invenzioni, Il primo accessorio che disegnò fu il complesso
obiettivo Stereo Elmar. E poi, va detto che, fino al suo
pensionamento nel 1960. forse il principale impegno di Albert fu lo
sviluppo della montatura a vite Leica. La sua influenza
sull’evoluzione della Leica non deve essere sottostimata: così
come Barnack iniziò, Albert seppe continuare. Non c’è dubbio che il maggiore e più
temibile rivale della Leica sia stato l’apparecchio Contax,
prodotto dalla Zeiss Ikon. Il crescente successo della Leica, fino
dalla sua presentazione nel 1925, aveva reso consapevole questa ditta
del mercato potenziale che esisteva per questo genere di fotocamere;
alla Fiera di Primavera di Lipsia del 1932 la Contax fu svelata al
pubblico. Il responsabile della sua progettazione fu il Dr. Ing.
Heinz Kuppenbender. Il design, in senso stilistico, fu opera
del Prof. Emmanuel Goldberg. L’otturatore della Contax era una
progetto innovatore, a scorrimento verticale e realizzato interamente
in metallo, ma si dimostrò non affidabile nel funzionamento. La
gamma di obiettivi utilizzabili, comunque fu ampiamente superiore a
quella della Leica. Il Sonnar f/1.5 da 5cm, disponibile a partire dal
1932, si avviò ad essere il più significativo obiettivo del
decennio. Era stato disegnato da Ludwig Bertele, che già aveva al
suo attivo, un altro capolavoro: l’obiettivo Ernostar f/1.8 da
100mm adottato per la famosa fotocamera Ermanox, fabbricata da
Ernemann. Un altro superbo obiettivo realizzato per la Contax fu il
Sonnar f/2.8-180mm (1936); questo fu innovatore nel progetto e si
dovette attendere ben oltre la Seconda Guerra Mondiale perché Leitz
realizzasse una concreta alternativa a questa ottica. Per quanto la Contax fosse una bella
fotocamera sotto il profilo della realizzazione ingegneristica, essa
non raggiunse mai la popolarità della Leica. La Leica fu la prima
macchina a sposare il promettente principio piccoli negativi –
grandi stampe, seppe ispirare fiducia al pubblico ed incorporare
innovazioni tecniche valide. I problemi della Contax furono in parte
dovuti ad un certo gusto per la meccanica sofisticata, che imperava
nelle fotocamere Zeiss Ikon. Uno dei difetti tipici, per cui la
macchina perse il confronto, fu la fragilità del suo otturatore. Non
si può però negare che, sotto il profilo dell’ottica, ogni
fotocamera Leica contenesse un po’ dell’inventiva Zeiss:
l’obiettivo Elmar era una variante dell’Elmax che a sua volta
derivava dallo Zeiss Tessar, il cui progetto discendeva dall’Unar
della stessa casa. Fu lo scadere del brevetto Tessar, nel 1927, che
rese possibile la costruzione dell’Elmar. ’indubitabile successo mondiale
della Leica fu dovuto a così tante ragioni che non è possibile qui
elencarle tutte. Una è facilmente individuabile (la facilità con la
quale l’apparecchio poteva essere maneggiato) e di essa abbiamo già
detto. A proposito invece dei parametri strettamente tecnici,
probabilmente il più significativo fu quello rappresentato
dall’otturatore, la cui dolcezza di funzionamento ed affidabilità
erano conseguenze di uno sviluppo equilibrato e di una notevole
esperienza di progettazione. Altre ragioni sono parimenti note:
l’otturatore Leica era accoppiato all’avanzamento della pellicola
e questa era una garanzia contro il diffuso inconveniente delle
doppie esposizioni accidentali. L’intercambiabilità delle ottiche
e la presenza di un telemetro accoppiato attiravano giustamente i
fotografi. L’ampia disponibilità di ottiche ed accessori pose
infatti la Leica in un posto a sè stante sul mercato, almeno fino
all’avvento della Contax. In più, tutti i particolari erano
lavorati con elevati livelli di precisione. Barnack era noto in
fabbrica come l’uomo che inseguiva il centesimo di millimetro e
nessun pezzo lasciava Wetzlar senza prima essere stato testato con
rigore. La maggior parte del costo di una Leica, proprio per questo
motivo, doveva essere appunto attribuito ai controlli, non alla
fabbricazione. Venivano usati soltanto materiali di primissima scelta
e anche all’assemblaggio delle fotocamere veniva applicata
l’estrema cura e precisione che gli operai specializzati
riservavano agli strumenti scientifici. Gli operai dovevano
sottostare ad un lungo periodo di apprendistato prima di essere
impiegati sulla linea del montaggio in serie. ’avvento della Leica aprì nuovi
orizzonti alla fotografia. Prima dell’arrivo della Leica non
avevano potuto svilupparsi le branche della fotografia sportiva con
teleobiettivi e in generale la fotografia d’azione eseguita con la
macchina in mano. Il fotoreportage poi, fu probabilmente il più
importante settore in cui la Leica fu usata e maggiormente acclamata.
Tuttora la Leica è considerata come un utensile eccezionale dai
reporter di tutto il mondo. Fu lo spirito che aleggiava nella
fabbrica Leitz – fatto di cooperazione, stimolazione incrociata di
idee, capacità di sviluppare praticamente concetti che rispondessero
ad esigenze pratiche – che veicolò lo sviluppo del sistema Leica.
Era lo spirito, sostenuto da Ernst Leitz I, che mise in grado Oscar
Barnack di sviluppare ciò che era nato come un suo divertimento
personale, così da trasformare un hobby in una grande ricerca
tecnologica. Prima della seconda Guerra Mondiale, Leitz fu
l’indiscusso leader in ogni campo della fotografia 35mm. Per quanto
la Leica non sia stata la prima macchina fotografica 35mm fu certo la
prima con telemetro accoppiato ed ottica intercambiabile (seguita
alla distanza di soli due mesi dalla Contax) e la prima con un
obiettivo stereoscopico. Sotto una visione allargata del mondo
fotografico, si può dire che tutte le fotocamere di piccolo formato
incorporino una caratteristica Leica, non fosse altro per la presenza
del caricatore portapellicola, per il numero (36) delle pose
eseguibili e per il sistema di riavvolgimento film a manovellina
pieghevole. Dopo 30 anni di continui, incontrastati successi, la
mitica Leica a vite di Oscar Barnack cede il passo ad una nuova
generazione di apparecchi, rivoluzionari nel sistema, caratterizzata
da avanzatissime innovazioni tecniche, che conquista consenso in
tutto il mondo fin dalla prima apparizione. Capostipite di questa
nuova generazione è la Leica M3. Questo modello nasce nel 1954, ma
nel suo lungo, fortunato cammino, subisce una lunga serie di
modifiche, aggiunte e varianti da renderne opportuna la
classificazione in tre versioni distinte. Anche la produzione della
M3, così come era avvenuto per la Leica a vite, è stata preceduta
da un certo numero di prototipi, circa una sessantina, prima che
fosse varato il modello definitivo. Questi prototipi, pur presentando
tutti una struttura essenziale perfettamente simile a quella che
caratterizzerà poi la M3 nella sua versione definitiva, si
differenziano l’uno dall’altro per piccole varianti ed
accorgimenti costruttivi. Molto pochi sono oggi gli esemplari
superstiti di questi prototipi e pertanto, sono molto ambiti dai
collezionisti. Seguirono la M3, dapprima la M2 che riscosse un
grandissimo successo tra i professionisti perché oltre che essere
più economica (20% in meno), il mirino era regolato per le focali da
35, 50 e 90mm le più adatte al reportage, poi la M1 particolarmente
adatta per la fotografia scientifica e tecnica e la M4 con l’ampliata
serie dei riquadri per le focali dal 35 al 135mm ed il nuovo sistema
di caricamento della pellicola più rapido. Con la M5 la Leica compie
un altro considerevole passo in avanti. Sono infatti, davvero
notevoli le innovazioni tecniche che vengono presentate con questo
modello. Le istruzioni che accompagnano la M5 ne esaltano, così, le
peculiarità: La prima macchina fotografica con mirino a telemetro ed
esposimetro a lettura attraverso l’obiettivo. Ciò significa non
solo precisa messa afuoco, ma anche misura del tempo di esposizione
in tutte le condizioni di luce, di giorno e di notte. Per la prima
volta, oltre alle due tradizionali prese per la sincronizzazione
poste sul retro dell’apparecchi, la slitta porta accessori viene
dotata di contatto caldo. Per la prima volta, la ma novellina per il
riavvolgimento della pellicola viene alloggiata nel fondello
dell’apparecchio. Ciò nonostante la M5, più spigolosa, più
grossa e più pesante della M4, non riscuote il successo sperato. Non
è gradita specialmente ai professionisti che continuano a far cadere
la loro preferenza sulla M4 che la Leitz mantiene in produzione
contemporaneamente alla M5 e che continuerà a produrre negli anni
successivi, con piccole varianti, nelle nuove edizioni M4-2 ed m4-P.
Infine fu inserito l’esposimetro senza variare l’aspetto della M4
e nacque così la M6 dalla quale, a sua volta, con l’introduzione
dell’automatismo di esposizione nacque l’attuale M7. I tempi
attuali fanno sì che la Leica non possa competere con le altre
produzioni di apparecchi fotografici per quanto riguarda i costi,
così la Leitz compete con la qualità della produzione e con la
costruzione di apparecchi commemorativi molto ricercati dai
collezionisti. Nel cuore degli
appassionati la Leica rimane, non c’è dubbio, la più bella
fotocamera mai prodotta.
La Ihagee
La ditta Ihagee è
universalmente conosciuta nel mondo della fotografia quasi
esclusivamente grazie al nome di una fotocamera che ha fatto storia e
il cui disegno, la cui concezione e i cui principi si sono tramandati
nel tempo, quasi immutati, fino ai primi anni settanta. Stiamo
parlando, ovviamente della celeberrima Exakta. Ma la storia e la produzione del
marchio Ihagee non si identificano esclusivamente con questo
fortunato modello. Infatti esse sono indissolubilmente legate alla
storia del fondatore della famosa ditta tedesca e al luogo in cui
questa nacque e si sviluppò, una fucina di tecnologia fotografica
che diede vita a tutta una serie di marchi che evocano ancor oggi
sentimenti di ammirazione e di nostalgia: Dresda. La ditta Ihagee
(dall'abbreviazione tedesca della dicitura Industrie und
HandelsGeselleschaft - I H G -) venne fondata da un olandese di nome
Johan Steenbergen nato a Meppel il 7 dicembre del 1886. Suo padre,
Jan, era un commerciante di tessuti e sembra che il giovane
Johan avrebbe dovuto seguire le sue orme. Fin da ragazzo dimostrò
una certa attitudine al commercio ereditata, sembra, dalla madre
Sophie Brummer. Si ricorda addirittura un aneddoto secondo il quale
da ragazzo comprò all’asta una scatola di pennarelli e li
rivendette, guadagnandoci, a parenti e amici. Durante le scuole
superiori cominciò ad interessarsi al mondo dei prodotti fotografici
in genere in cui aveva cominciato a commerciare. Dopo la morte del
padre comprese che la sua strada non era certo quella del commercio
di tessuti e si risolse ad abbandonare Meppel per trasferirsi in
Germania. Prima che partisse per Dresda aveva già disegnato il suo
logo: una luna calante con un sole nascente (il logo utilizzato per
tanti anni dalla Ihagee). Il giovane Johan si diresse a Dresda, una
cittadina dove era già fiorente un'industria meccanica di precisione
e dove operavano già ditte dal nome altisonante come per esempio la
Balda, la Huttig, la Zeh, la Wünsche ma soprattutto la Ernemann. E
fu presso quest'ultima ditta che Stenbergen trovò impiego in
qualità di apprendista. Col tempo comprese che quello era il centro
della fotografia dell'epoca e che proprio in quella città avrebbe
dovuto continuare la sua opera. Tra l'altro l’importanza di Dresda
fin da quel tempo è testimoniata dall’esistenza di una grande
esposizione della fotografia che si teneva in quella città fin dal
1908. Nell’aprile del 1912 Steenbergen riuscì a coronare il sogno
di impiantare nella città della fotografia una ditta tutta sua. Fu
così che fondò la Industrie und Handelsgesellschaft Kamerafabrik in
Marcolinistrasse al nr. 8. All’inizio la ditta si proponeva la
commercializzazione di materiale fotografico in genere, tanto che
trattava la vendita di accessori per la fotografia, piccole
attrezzature e materiale sensibile, pur senza disdegnare la
realizzazione di parte dell'attrezzatura fotografica
presumibilmente assemblando macchine composte di parti acquistate da
altri fabbricanti. Ma subito dopo si dedicò esclusivamente alla
produzione e al commercio di attrezzature fotografiche. Il nome della
ditta venne abbreviato in Ihagee Kamerawerk. Riguardo ai primi passi
mossi dalla neonata Ihagee e alla sua produzione, purtroppo sappiamo
molto poco . Una delle prime macchine prodotte fu la Photorex, una
macchina a soffietto di tipo classico, con otturatore Compound. E'
presumibile che in quel periodo ci siano stati dei rapporti
commerciali e forse di cooperazione con la ditta Mono-Verk con sede
in Magdeburgo poiché vi è notizia di una versione della fotocamera
Mono Minax del 1914 che riporta la dicitura Ihagee sul corpo
macchina. Allo scoppio della prima grande guerra 1914-1918 la ditta
subì una forma di rallentamento forzato dovuto alla richiesta
dell'esercito che chiamava alle armi la cittadinanza tedesca e, di
conseguenza, anche gli impiegati e gli operai della
Ihagee. Steenbergen che nel frattempo era tornato in Olanda, da
dove amministrava ora i suoi interessi, continuava a veder crescere
il giro di affari della sua attività che, dopo la fine del primo
conflitto mondiale, aveva notevolmente ampliato il proprio raggio
d'azione ed acquisito importanza nel panorama industriale tedesco.
Così il giorno 11 dicembre del 1918 la Offene Handelgeselleschaft
Ihagee Kamerawerk Steenbergen & Co. fu iscritta al registro
commerciale di Dresda. Contemporaneamente la dirigenza Ihagee si
risolse, nel 1919, a trasferire la propria sede in un edificio più
consono alla rinnovata produttività, pur rimanendo a Dresda. E la
ditta venne trasferita in Gottfried Kellerstrasse 85. Contestualmente
a questa nuova consapevolezza di accresciuta maturità della propria
fabbrica, Steenbergen decise di iniziare la produzione di una
macchina di legno ideata da lui stesso. Nel corso degli anni la
Ihagee ha realizzato numerose macchine , in legno e metallo, a
soffietto, del tipo definito Klapp, a lastre o per rullo. Tra i
modelli più fortunati ricordiamo la Ultrix che era una fotocamera a
soffietto di tipo classico che utilizzava il rullo 120 e la bella
Parvola, un soffietto di piccole dimensioni che impressionava la
pellicola in rullo 127. Ad ogni modo sul corpo macchina mai era
riportato il nome della fotocamera, ad eccezione del modello Paff.
Ciò cambiò nel 1933 con l’avvento dell’Exakta con il suo
formato 6,5 x 4 (non 6 x 4,5) su pellicola. Il successo ottenuto
dalla fabbrica di Steenbergen era comunque in continua crescita sia
per la schiera di fotoamatori che apprezzavano i prodotti sia per la
qualità offerta dagli stessi così che i fabbricati risultavano
troppo piccoli e nel 1923 venne deciso un altro trasferimento. Fu
realizzato un grande impianto nel distretto di Striesen in
Schandauerstrasse 24, a Dresda, dove già producevano la
Ernemann e la Ica. La fabbrica aveva una superficie di circa 5580 mq
e si sviluppava su tre piani e impiegava centinaia di lavoratori. Ciò
accresceva la fama di Steenbergen che, per i suoi meriti, fu nominato
Console onorario nel 1929 in rappresentanza dell’Olanda. Il 28
giugno 1930 ricevette la visita del principe d’Olanda Hendrik
(nonno della regina Beatrice) che visitò il consolato e la
fabbrica. Steenbergen provvedeva anche a pubblicare
depliants pubblicitari e note informative: in seguito di ciò si
interessò Wermer Wurst che nel 1928 era entrato a far parte della
Ihagee . Anche se aveva iniziato come apprendista egli aveva studiato
alla scuola tedesca di fotografia e divenne in seguito un manager del
dipartimento della pubblicità. Egli divenne famoso per il libro
Exakta Klieinbild-Fotografie ristampato 11 volte e per molte altre
pubblicazioni sull’ Exakta e sulla fotografia in generale. Dal
momento che la Ihagee aveva numerato tutte le macchine in ordine
sequenziale e il numero sequenziale delle Exakta partiva dal 400.000
la ditta aveva probabilmente prodotto tante macchine nei primi 21
anni della sua esistenza. Ad ogni modo è risaputo che la fabbrica
produceva circa 3000 macchine al mese con un personale di circa
660 operai negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della
seconda guerra. La Ihagee quindi divenne famosa con la fotocamera
Exakta anche se questa non può essere considerata la prima
reflex realizzata dalla Ihagee, poichè già nel 1920 era stata
prodotta la Paff, una box camera reflex monobiettivo. E poi ne erano
state prodotte molte altre precedentemente anche da altre ditte. In
cosa sta allora la carica innovativa di questa celeberrima macchina
fotografica? Innazitutto dobbiamo distinguere tra l'Exakta Standard
(definita anche VP dal nome del tipo di pellicola che utilizzava Vest
Pocket Kodak ) e la Kine Exakta. Occupiamoci dapprima
della Exakta
Standard . Questa fotocamera venne presentata alla Fiera di
Lipsia del febbraio del 1933, dopo che la produzione era iniziata nel
1932. Le sue caratteristiche salienti fanno capire subito che si
tratta di qualcosa di innovativo. La macchina presentava uno specchio
a 45°, un mirino a pozzetto pieghevole, la sua forma trapezoidale le
assicurava una discreta ergonomia rendendola facilmente maneggevole
e, oltretutto, utilizzava la pellicola 127 che all'epoca era
largamente usata (la si può reperire anche oggi presso alcuni negozi
specializzati). Si trattava sicuramente di qualcosa di veramente
originale in un panorama fotografico dominato dalle Leica e dalle
Contax. Il successo fu immediato e i primati che vanta la piccola di
Dresda sono diversi. Tra questi: 1) l' Exakta può essere definita la
prima fotocamera monobiettivo di tipo moderno che utilizzava
pellicola in rullo; 2) l' Exakta vanta un otturatore sul piano focale
che va da 12" fino ad 1/1000"; 3) l' Exakta adotta la leva
di avanzamento dieci anni prima delle rivali; 4) l' Exakta vanta un
sistema che consente l'utilizzo del flash collegato all'otturatore.
Di questa fantastica fotocamera sono stati prodotti diversi modelli e
anche le singole versioni sono state differenziate tra loro per
piccoli accorgimenti tecnici. Per chiarezza e praticità vengono
distinti nei seguenti modelli: Modello A del 1933 elaborato in 5
versioni, Modello B del 1933 elaborato in 7 versioni; Modello C del
1935 elaborato in 3 versioni; Modello definito Night Exakta del 1934
elaborato in 4 versioni; Modello definito Exakta Junior del 1936
elaborato in 3 versioni. A questa serie di fotocamere venne
affiancata una diversificata offerta di ottiche intercambiabili che
ne aumentavano considerevolmente la versatilità (particolare che ha
sempre contraddistinto la produzione Exakta) e di accessori per
diversi tipi di impiego sia amatoriale che professionale. Queste
caratteristiche (comuni in un certo senso anche alla produzione
Contax della Zeiss Ikon) hanno fatto sì che l'Exakta si imponesse
come una macchina fotografica universale. La Kine
Exakta, progettata e realizzata da Karl Nüchterlein con
l’assistenza di Otto Helfricht e Rudolf Groschupf, manteneva
inalterate tutte queste caratteristiche ed offriva in più una
particolarità che verrà apprezzata maggiormente nel corso degli
anni: il fatto che utilizzava la pellicola 35mm. Questa leggendaria
fotocamera venne presentata alla fiera di Lipsia del 1936, soltanto
un anno dopo la realizzazione di un'altra macchina storica, la Gomz
Sport, che detiene con essa il primato di rappresentare la prima
reflex 35 mm della storia. Infatti, da un punto di vista
esclusivamente temporale, il primato andrebbe alla macchina russa
che, sembra essere stata commercializzata fin dal 1935 nella sola
Unione Sovietica. Le fonti a tal riguardo non sono particolareggiate,
in pieno stile sovietico (basti pensare che fino alla caduta del muro
di Berlino era perlomeno improbabile poterne visionare qualche
esemplare). Ma da un punto di vista commerciale inteso in senso di
fruibilità da parte del mondo della fotografia, la Gomz Sport
non poteva competere con la versatilità della Kine Exakta. E questo
per varie ragioni. Innanzitutto il limitato numero di esemplari
prodotti che relega la macchina sovietica al ruolo quasi di
prototipo, poi l'area geografica di appartenenza che limitava la
diffusione della stessa, ma anche l'inesistenza di ottiche dedicate
anche se la macchina era predisposta in tal senso e la mancanza
completa di accessori. Tutto il contrario della fotocamera tedesca:
questa vantava un corredo di ottiche originale Ihagee ma anche di
tutta una serie di produttori anche esteri, la possibilità di essere
impiegata in qualsiasi ramo di utilizzo (dall'amatoriale allo
sportivo, al giornalismo alle applicazioni scientifiche) grazie ad
una smisurata serie di accessori dedicati. Per questa serie di motivi
è giusto riconoscere alla Sport solo il primato storico cronologico
che però si esaurisce con la vita del modello stesso (limitatamente
a pochi anni). Nulla a che vedere con l'innovazione e le potenzialità
pratiche della Kine che, evolvendosi ma rimanendo praticamente la
stessa per circa 40 anni, ha dato vita alle magnifiche Varex degli
anni sessanta. Ma torniamo alla Kine Exakta. Questa
fotocamera appariva, alla sua presentazione, come una macchina
originale, pur percorrendo la linea caratteristica della Exakta
Standard, ma con un mirino a pozzetto che includeva una lente di
ingrandimento di tipo circolare che facilitava notevolmente la messa
a fuoco. Altra caratteristica peculiare introdotta dalla Kine era la
taglierina introdotta nel corpo macchina ed azionabile dall'esterno
grazie ad un piccolo pomello posizionato sul fondo. Ciò consentiva
di risparmiare sul film non esposto. Per il resto il posizionamento
della leva di carica rimaneva sulla sinistra, così come il pulsante
di scatto (tipico di tutte le Exakta) e la ghiera dei tempi lenti a
destra. I tempi andavano da 1/25" a 1/1000" + B e T. Questo
primo modello, denominato per comodità Versione 1 (round magnifier)
del 1936 venne aggiornato l'anno successivo dalla Versione 2
(rectangular magnifier) diversa per la forma dell'oculare posto sopra
il pozzetto. Nel 1937 venne anche prodotta una serie, denominata
Versione 3 che recava la dicitura Exacta (la cosiddetta "C"
spelling) destinata prevalentemente al mercato statunitense. Nel 1938
venne introdotta poi la Versione 4 che è l'ultima di quelle
precedenti il secondo conflitto bellico. Le Kine prodotte prima della
guerra riportano tutte la scritta Ihagee sul dorso. Dopo la guerra,
nel 1948, venne introdotta la Versione 5 anch'essa con la dicitura
Exacta (la cosiddetta "C" spelling). Da questo momento in
poi venne avviata la linea Exakta II che si evolse in seguito nella
Exakta Varex (1950), Exakta V (1950), Exakta VX (1951-56), Exakta
Varex IIa ((1957-62), Exakta Varex IIb (1963), Exakta Varex 1000
(1967) Exakta Varex 500 (1969). Ma la storia dell'Exakta non si
esaurisce qui. Infatti con questo nome venne prodotta anche, nel 1938
e per un breve periodo, una rivoluzionaria medio formato che ispirò
negli anni successivi fotocamere del tipo Praktisix, Penatconsix,
Kiev 60, Pentax 6x6. Si trattava di una reflex maggiorata, denominata
Exakta
66, che utilizzava il rullo 120 e da cui si ottenevano fotogrammi
di formato 6x6 cm. Ricordava in tutto e per tutto una Exakta
Standard, tranne che per la caratteristica leva di avanzamento
posizionata sul fondo del corpo macchina. Per il resto solo le
dimensioni, adatte a ricevere un rullo di pellicola 120, la facevano
differire dalla storica antesignana. Con lo stesso nome venne
prodotta, nel dopoguerra, un'altra medioformato dalla forma
inconsueta e con magazzino intercambiabile. Ma, come è già stato
accennato, l'irrompere del secondo conflitto bellico interruppe
definitivamente la produzione di questo modello. Infatti la seconda
guerra mondiale e la società nazista della Germania influirono
enormemente sull'intera produzione della Ihagee. Il 15 gennaio 1940
infatti venne promulgata una legge che regolamenta i beni siti in
territorio germanico appartenenti a cittadini stranieri di nazioni
nemiche. Ciò comportava che questi non potevano disporre più dei
loro beni in patria. E, per forza di cose, tale provvedimento venne
subito applicato anche nei confronti di Steenbergen e di sua
moglie che, nel maggio 1940 vennero arrestati per un breve periodo
(probabilmente in seguito anche alle discriminazione razziali dal
momento che la moglie di Steenbergen era ebrea) e poi rilasciati così
che poi partirono per gli Stati Uniti dove si stabilirono nel 1941.
Le loro proprietà vennero confiscate e il 26 agosto del 1940 e tutti
i dirigenti della Ihagee vennero sostituiti da uomini d'affari
imposti dal nazismo. La fabbrica venne così asservita alle
esigenze della Wermacht fino a che non venne completamente distrutta
durante i bombardamenti aerei su Dresda il 13 febbraio 1945.
Potremmo dire che la storia della Ihagee a questo punto si
interrompe, ma non termina. Infatti nel successivo dopoguerra la
ditta si ricostituisce in quella che nel frattempo era divenuta la
Germania dell'Est. Qui si ricomincia a produrre l'Exakta II del tutto
simile agli ultimi modelli della Kine finchè nel 1950, con
l'introduzione della Exakta Varex venne consentita la possibilità di
intercambiare il mirino che fino a quel momento era disponibile solo
come pozzetto. Ora si poteva scegliere di sostituirlo con il
pentaprisma. Le caratteristiche della Exakta Varex faranno da guida
per circa un ventennio per tutta la produzione che seguirà,
evolvendosi nelle famose Exakta Varex IIa, Exakta Varex IIb, Exakta
Varex 1000 ed Exkta Varex 500. Questi sono gli ultimi veri prodotti
Ihagee che, negli anni '70, dovranno cedere il passo all'esuberante
produzione giapponese. Da ricordare che, sempre a partire dai primi
anni '50 all'Exakta venne affiancato un modello più economico ma
completamente compatibile ed intercambiabile con essa: la Exa.
Questa, realizzata in diverse versioni, vantava un corpo macchina più
piccolo, ma lo stesso innesto obiettivi, la possibilità di
intercambiare i mirini e tutti gli accessori che avevano fatto grande
la sorella maggiore Exakta. Oggigiorno queste macchine sono
abbastanza ricercate e offrono ancora la possibilità di fotografare
con piacere e con ottimi risultati ad un costo davvero contenuto.
La Nippon Kogaku
Il successo dell’industria
fotografica giapponese è cosa recente, ma un cenno soprattutto per
la Nippon Kogaku è doveroso.
L’industria giapponese, che ha
iniziato copiando a man bassa la produzione tedesca, è oggi
diventata leader nel settore fotografico e, è curioso dirlo,
viene oggi copiata dagli antichi maestri tedeschi. Il Giappone ha
saputo negli anni del secondo dopoguerra approfittare di una
situazione estremamente favorevole per la produzione in grande serie
grazie ai bassi costi della manodopera che hanno consentito di
esportare in tutto il mondo apparecchi di qualità a prezzi
bassissimi. Ma negli anni Settanta il Giappone si viene a
trovare in una situazione simile a quella attraverso la quale
l’Europa ed il mondo occidentale sono passati in precedenza: i
costi di produzione sono aumentati enormemente e i prodotti, sempre
più sofisticati, non sono più così economici come una volta. Nel 1959 la Nippon Kogaku presentò il
suo modello reflex 35mm Nikon F che, non più in produzione, conta
ancora una certa quantità di appassionati. Pur derivando da un
modello precedente della stessa casa: la Nikon S a telemetro, la
Nikon F può definirsi discendente dall’idea Contax. Infatti è
proprio dalla Nikon S che gli ingegneri della Nippon Kogaku hanno
saputo creare il primo apparecchio reflex a sistema, un apparecchio
che grazie ad una grande intuizione può vivere ancora oggi al centro
di un sistema di obiettivi ed accessori tra i più vasti. Dalla Nikon
S, il modello reflex ha ereditato molte soluzioni tecniche ancora
validissime e che dimostrano come l’ultima fotocamera a telemetro
della Nikon fosse un apparecchio davvero d’avanguardia. Nella F
sono stati utilizzati il sistema di avanzamento e carica
dell’otturatore della S, il dorso asportabile con apertura a
chiavetta, il sistema di cuscinetti a sfera su cui sono fissati gli
assi dell’otturatore, le tendine in titanio, il contatto caldo per
lampeggiatori compatti, il dorso con motore elettrico e molte altre
soluzioni ancora. L’idea dell’intercambiabilità, che oggi regna
sovrana, è un’idea Nikon; basi pensare al sistema di visione della
Nikon F che nel 1960 era già dotato di vetri di messa a fuoco
intercambiabili, di mirini di diverso tipo, è oggi non solo ancora
valido ed incrementato, ma utilizzato da vari altri fabbricanti. Il sistema di visione reflex degli
apparecchi moderni non è diverso nel principio dalla camera oscura.
In una moderna reflex 35mm i raggi di luce che passano attraverso
l’obiettivo vengono intercettati da uno specchio posto a 45° che
li riflette in alto sullo schermo di messa a fuoco. Questo schermo,
che serve appunto per la messa a fuoco dell’immagine e per
l’inquadratura, deve trovarsi ad una distanza dall’obiettivo
identica a quella esistente tra obiettivo e piano focale. Solo se
queste misure sono precise al decimo di millimetro l’immagine che
viene messa a fuoco sullo schermo risulterà a fuoco anche sul
fotogramma una volta sviluppata la pellicola. Sui primi apparecchi
reflex la messa a fuoco si effettuava sullo schermo posto
orizzontalmente nella parte superiore e protetto dalla luce da
quattro antine paraluce che consentivano di osservare più
chiaramente l’immagine. Nei primi apparecchi reflex la messa a fuco
andava eseguita dall’alto in modo non troppo confortevole, Soltanto
nel 1950 apparve la prima reflex dotata di un dispositivo prismatico,
il pentaprisma, che consentiva di osservare lo schermo di messa a
fuoco tenendo l’apparecchio all’altezza dell’occhio: era la
Contax SA. Grazie al pentaprisma veniva risolta anche un’altra
questione: quella dell’immagine coi lati invertiti dovuta
all’utilizzazione dello specchio. Con il pentaprisma l’immagine
visibile attraverso l’oculare ritornava corretta, la destra era
destra e la sinistra sinistra. Dai primi apparecchi reflex 35mm
ad oggi l’evoluzione è stata notevole. Nel 1960 la Nikon F era
dotata di un sistema di mirini intercambiabili e di schermi di messa
a fuoco invidiabile. Per semplice curiosità e per rendere
l’idea di quanto possa essere complicata la costruzione di una
macchina fotografica come la Nikon F si evidenzia il fatto che questo
apparecchio è composto di 918 pezzi.