I

Breve storia della fotografia

I pionieri della fotografia

Aprendo  il dizionario di Italiano  leggo: endorfina: peptide presente nel cervello, in grado di innalzare la soglia del dolore, con effetti simili a quelli della morfina. Quindi un effetto droga, ma con l’indubbio vantaggio di non indurre effetti collaterali!Cosa può stimolare le endorfine? Molte cose e fra queste si dice l’assunzione di cioccolata, ma io penso: anche accarezzare il proprio gatto che fa le fusa! Sì sono due fattori che senz’altro hanno a che fare con questo peptide! Ma riflettendoci, vi sono altre situazioni che provocano questo stato di felicità ed una fra queste è senz’altro la realizzazione, anche se parziale, di un proprio desiderio! Sì, è senz’altro così. Io ho tutti gli elementi per drogarmi in modo sano: cioccolata, di cui sono molto goloso, gatti, due, maschio e femmina, meravigliosi e la mia piccola collezione di macchine fotografiche. Sento improvvisamente il forte desiderio di immergermi in questa felicità e di produrmi un’overdose. Prendo in braccio il gatto più accondiscendente, tanto per intenderci, quello che come lo tocchi accende immediatamente il motore e produce fusa a dismisura: Philo il maschio o meglio l’ex maschio; mi prendo una tavoletta di cioccolato fondente e mi seggo comodamente sul divano della tavernetta. Accarezzando il gatto, comincio a  far sciogliere fra lingua e palato la cioccolata seduto davanti alla mia piccola vetrina di macchine fotografiche o fotocamere come le volete chiamare. Il cioccolato si scioglie lentamente in bocca, il gatto sta iniziando il suo concerto: prrr! prrr, prrr…. ed io comincio a sentirmi molto bene: l’endorfina sta producendo i primi effetti. Osservo attentamente i miei apparecchi fotografici e penso: sono occorsi più di trent’anni per raccoglierli e non riuscirò mai a completare la mia collezione! Ma perché, sono preso sempre dall’impulso irrefrenabile di acquistare una fotocamera? La risposta è che quando prendo in mano uno di questi oggetti, succede un fatto strano: si stabilisce un contatto quasi misterioso con l’oggetto che mi induce a conoscerne le origini. Ritengo che l’invenzione di questo meraviglioso strumento di precisione rappresenti una pagina miliare della storia dell’Uomo: l’ingegnosa sintesi fra osservazione, manualità, fisica, chimica e meccanica; uno stupendo compendio di conoscenza! Sono molto sensibile a tutto ciò che rappresenta conoscenza; in tutti i campi, ma particolarmente in questo che rappresenta la mia passione principale. Come dicevo, prendendo in mano una macchina fotografica, si stabilisce un misterioso contatto. Mi appare ogni particolare riguardo alla sua costruzione. Se poi le fotocamere sono molto vecchie, vedo all’opera le mani ed il volto di coloro che l’hanno ideate quasi come se, per assurdo, i creatori di questi oggetti le avessero toccate per verificarne il funzionamento ed io colgo in esse la presenza dei loro costruttori. Ma la sensazione è passiva come quella di uno spettatore, riesco a vedere ciò che fanno, ciò che dicono e riesco anche ad intuire il loro pensiero riguardante il prodotto in costruzione ed il loro modo di porsi le domande. Ho la sensazione di persone che ho sempre conosciuto, quasi di famiglia, pur restando sempre all’esterno del loro operato. Sarà perché leggendo le loro storie, sono rimasto molto colpito dallo spirito che li animava. Considerando per molti di essi l’ambiente in cui lavoravano: niente corrente elettrica, niente acqua corrente etc., non si può fare a meno di considerarli degli uomini straordinari. Non si può non farsi prendere dalla tristezza quando si immaginano i sacrifici e la dedizione di Nicèphore Niépce, che non ha raccolto nulla dalle sue importanti ricerche! Come si può non rimanere impressionati da un uomo come George Eastmann che si lancia in un’impresa avventurosa, con la determinazione di poterla realizzare ed una volta raggiunti i propri scopi e fra questi un grande impero industriale e commerciale, decide di uscire di scena considerandosi appagato. Non è possibile essere pervasi da un profondo senso di ammirazione per Ernst Abbe, per me un idolo, che con una visione veramente avveniristica per l’epoca, pone le fondamenta di una delle più importanti aziende fotografiche mai esistite. Non si può neppure restare insensibili di fronte ad un’esile figura come quella di Oskar Barnack i cui pensieri e la cui dedizione sono sempre rivolti a facilitare l’uso delle macchine fotografiche. Possiamo forse ignorare la passione di Stenbergen che non esita a trasferirsi in un’altra nazione per realizzare i propri progetti anche se, per questioni razziali, questo gli comportò parecchi problemi? Penso che avvicinandoci un pochino a questi personaggi, i più famosi, oggi, in campo fotografico, veniamo indirettamente a conoscenza anche di tutti coloro che hanno preso parte a questa meravigliosa avventura. Il mondo della fotografia spazia nei più disparati campi; man mano che nasce e si perfeziona la tecnica fotografica ci si accorge che la fotografia non è solo un divertimento, ma può essere uno strumento di ricerca, un mezzo di lavoro. Uno strumento forse un poco sottovalutato dai non addetti ai lavori e da molti considerato come uno dei tanti elettrodomestici usati dall’uomo. Ma abbiamo mai pensato cosa dovremmo cancellare dalla nostra vita se non avessimo a disposizione la scienza della fotografia? Tutto ciò di cui noi oggi possiamo fruire è merito non tanto del progresso tecnico-industriale, quanto delle ricerche e degli studi che si conducono nei laboratori delle università, nelle industrie e grazie all’impiego della fotografia (fotomicrografia, fotografia ultrarapida, micrografia elettronica, spettroscopia, ecc.). La fotografia trova moltissime applicazioni nel campo professionale ed industriale, nella stampa e nelle arti grafiche. La radiografia sin dalla scoperta dei raggi X da parte di W.C. Roentgen nel 1895, ha fatto passi da gigante ed oggi viene impiegata non solo negli ospedali e nelle cliniche, ma anche nell’industria, nei musei, ecc. La fotografia e la cinematografia sono preziosi strumenti didattici e gli studenti hanno acquistato un nuovo e piacevole modo di apprendere. La ripresa fotografica aerea è utilizzata per scopo meteorologico, militare, cartografico, archeologico, agricolo, urbanistico. Materiali fotografici speciali registrano fedelmente ogni tappa dei viaggi pionieristici nello spazio e sulla Luna. Tutte queste ed altre applicazioni della fotografia evidentemente hanno richiesto e richiedono materiali sempre più sensibili, più rapidi, sistemi sempre più perfetti. Se abbiamo raggiunto simili traguardi lo dobbiamo alla lunga schiera di pionieri e ricercatori, dilettanti o meno. Ci sono stati pittori, scultori, musicisti, uomini di chiesa divenuti figure leggendarie nella storia della fotografia o rimasti nella completa oscurità. Acquistare una vecchia fotocamera  significa rendere omaggio a tutti coloro che si sono dedicati alla scoperta di questo meraviglioso mezzo di comunicazione; un mezzo che ha permesso all’uomo di trasmettere in termini reali i suoi ricordi, i suoi usi, i suoi costumi, le sue sensazioni, la sua storia. Ma ora davanti al mio minuscolo museo, forse in preda all’overdose di endorfine, mi balzano alla mente una miriade di nomi e fra questi più di altri: Kodak, Zeiss, Leitz, Exakta, …………….. tutti nomi attinenti alla fotografia. Molti neofiti che oggi schiacciando il bottone di un cellulare trasmettono all’amico o alla fidanzata un’immagine, conoscono questi nomi? O meglio, conoscono la storia di ricerca, dedizione, successi ed insuccessi che stanno dietro questi marchi famosi e soprattutto gli uomini che vi stanno dietro? Impariamo a conoscere questi uomini leggendari, omaggiando il loro ingegno, la loro passione, la fatica, le delusioni, la pervicacia infusa nella ricerca, tutte qualità, che hanno contribuito al perfezionamento del principale strumento che ci permette di vedere il disegno della luce; in fondo è proprio di questo che si parla, quando si parla di fotografia: il pennello della luce. Spesso si dice e a ragione che ciò che ha caratterizzato, con segno inequivocabile, l’avvento della civiltà umana sia stata l’invenzione della scrittura che, a quanto noi siamo a conoscenza, risale ai Sumeri seguiti a brevissima distanza dagli Egizi. Sappiamo anche che i primi scritti nacquero per esigenze contabili ed amministrative, ma esisteva il problema di trasmettere le parole con la massima fedeltà. Un messaggero, un araldo, un portavoce militare potevano introdurre delle variazioni nel messaggio che l’autorità intendesse comunicare; si sviluppò, quindi, un sistema di tipo pittografico, ossia mediante immagini. Quindi la parola dell’immagine è da sempre stata complementare a quella della scrittura. Le parole e gli scritti, di sovente, venivano accompagnati da immagini, allora pittoriche, per renderne più chiaro il concetto. Da quanto citato si può desumere quale sia l’importanza dell’immagine nella storia dell’uomo. Col crescere dell’evoluzione gli esseri umani sentirono anche la necessità di trasmettere ai posteri le vicende umane: le battaglie, le guerre, gli episodi che avevano costruito la storia e subito dopo i loro costumi, il loro modo di vivere fino ad arrivare alla propria esaltazione personale, quindi all’autocelebrazione dei propri meriti; in tutti i campi: bellici, amministrativi, religiosi, di forza, di ricchezza e così via. Ovviamente le immagini trasmesse ai posteri, per autocelebrazione, spesso non rispecchiavano la realtà, ma solo il volere del committente, quindi davano una rappresentazione non del tutto aderente alla verità dei fatti ed alle immagini delle persone. Tralasciando l’aspetto artistico della pittura, sempre valido per trasmettere i propri stati d’animo in un determinato momento della vita, i concetti essenziali della vita stessa  e le considerazioni del proprio intimo e prendendo in considerazione soltanto l’aspetto pittorico documentale, nacque l’esigenza di ricercare uno strumento riproduttivo più fedele alla realtà dei fatti ed agli scritti trasmessi ai posteri. Le cosiddette cronache dei tempi erano frutto di pochissimi colti che le rappresentavano con la scrittura, ma, nel contempo, queste persone colte vivevano e potevano trasmettere notizie perché al servizio dei potenti, lo stesso dicasi per gli autori di immagini, quindi la comunicazione risultava spesse volte falsata, omessa od anche addolcita per i potenti meno sfacciati. Oggi, tutti noi, possiamo dar fede a degli illustri uomini che ci hanno trasmesso le cronache e le immagini del loro tempo, ma è solo fede, che può essere bene o male riposta secondo l’attendibilità degli autori delle cronache. Certo le ricerche archeologiche, le comparazioni con scritti ed immagini che provengono dalle parti avverse ci hanno ridato cronache ed immagini un poco più aderenti alla realtà, ma il dubbio su come effettivamente siano andate le cose o sugli aspetti dei personaggi che le hanno fatte, rimane. Sicuramente e a grandi linee, conosciamo ciò che è avvenuto durante la storia dell’uomo, ma i particolari, le piccole cose, non ci offrono senz’altro l’aderenza reale alla verità ed a volte un piccolissimo particolare non conosciuto o conosciuto erroneamente può portare allo stravolgimento di quanto accaduto in seguito. Se in quelle antiche epoche fosse esistita la macchina fotografica forse la storia che noi leggiamo sui libri sarebbe diversa e sicuramente arricchita di tanti particolari oscuri che ancora oggi creano delle dispute fra studiosi, col risultato di creare delle fazioni, di fornire delle immagini storiche falsate nella realtà del contesto storico. Tutto quanto sopra, serve ad introdurre un piccolo discorso che non ha l’ambizione di porre in discussione la realtà degli avvenimenti storici, ma soltanto di fare una piccola ricerca sull’importanza che ha avuto ed ha la fotografia, senza sottacere tre piccoli esempi per tutti: il dipinto di Ramses II che lo vede vincitore incontrastato alla battaglia di Kadesh, potrebbe essere ammirato come documento storico se noi avessimo un reportage fotografico sulla stessa? Oppure, al contrario: l’olocausto perpetrato dai nazisti o la guerra del Vietnam li conosceremmo, come in effetti oggi li conosciamo, se non ci fossero stati dei documenti fotografici che ce li hanno mostrati in tutta la loro crudezza?  La fotografia è nata per caso, ma inevitabilmente. Ed è figlia delle osservazioni sulla luce e sull’ottica di Pitagora, Aristotele ed Euclide. Ad essa, però, si è giunti dopo lunghi periodi contraddistinti da una lenta evoluzione tecnologica contrapposta ad una formidabile spinta della scienza, dell’arte e dell’architettura. Fin dal ponderoso De Architectura di Vitruvio (I sec. A.C.), è il tema della prospettiva che avvicina matematici ed architetti. Tra l’osservazione ad occhio nudo e l’osservazione meccanica il passo è breve tanto che la camera obscura si diffonde a cavallo del Cinquecento e del Seicento più di quanto non si possa immaginare. Da vera e propria stanza con un foro al centro di una parete dentro la quale si entrava fisicamente per osservare e ricalcare su grandi fogli la proiezione dello scenario esterno, si è arrivati a modelli piccoli, trasportabili e reflex. La camera obscura portatile di fine Seicento, che riproduceva sul vetro smerigliato quanto inquadrato dal foro stenopeico e poi da una vera e propria lente, diventò lo strumento di molti pittori per il disegno dal vero, pare che, anche se discutibile questa affermazione, il grande Raffaello ne fosse stato contagiato. Piano, piano, mentre le conoscenze della chimica e il caso (collaboratore fisso di tutte le grandi invenzioni) evolvono positivamente, molti artisti cominciano a sentire l’esigenza di fissare quella comoda, impalpabile immagine della camera obscura. Quindi il primo strumento importante collegato alla storia della fotografia è la camera obscura. Una spiritosa ipotesi  data la nascita della camera obscura nel 1500  in un paese mediterraneo durante il sonnellino pomeridiano di un distinto artista che forse vide, sulla parete della propria stanza, una immagine strana che proveniva da fuori. La stanza era immersa nel buio, ma da un forellino aperto verso l’esterno, esattamente dalla parte esposta al sole, entrava una immagine che, rovesciata nei confronti della realtà, ma chiara e netta, andava a posarsi sulla parete di fronte. Per il distinto artista fu la salvezza. Non ci sono dubbi, infatti, che la camera obscura fu l’ancora di salvezza per tanti pittori di croste che con la propria mano e la fantasia facevano una enorme fatica a mettere insieme immagini di paesaggi e volti di persone. Con la figura proiettata in una stanza immersa nella penombra, il problema prendeva contorni precisi per avviarsi ad essere risolto. Senza volerci soffermare oltre su spiritose ipotesi, è comunque accertato che fu nel Cinquecento che ci si rese anche conto che più piccolo era il forellino dal quale l’immagine esterna entrava in una stanza immersa nella penombra, più l’immagine stessa era chiara. Ad aver parlato della camera obscura sono stati davvero in molti: dal dotto arabo Ghazzali, un appassionato studioso di ottica, a Ruggero Bacone; dal matematico olandese Reiner Gemma Frisius a Cesare Cesariano, un allievo del grande Leonardo da Vinci; dallo stesso Leonardo allo scienziato napoletano Giovan Battista Della Porta. Fu proprio quest’ultimo a consigliare con chiarezza e sincerità, l’uso della camera obscura a chi non sapeva dipingere e aveva comunque ugualmente bisogno di maneggiare matite e pennelli. Parlarono ancora della camera obscura in modo più o meno diverso, consigliando l’uso di lenti esterne o interne, discutendo se fare la camera grande o piccola, portatile o fissa, anche il medico milanese Girolamo Cardano, il pittore Hans Hauer, l’astronomo Giovanni Keplero e ancora altri. Un fatto è certo: la camera obscura rappresentò davvero l’ancora di salvezza per un gran numero di artisti mediocri. Quando avevano una ordinazione, si sedevano davanti alla loro camera portatile e poggiando una carta lucida sull’immagine di un soggetto disposto a pochi passi di distanza, con l’aiuto del sole, si mettevano a lavorare.  La cosa andò avanti per molti anni. Col procedere delle ordinazioni anche le esigenze di questi pittorucoli crescevano. L’immagine attraverso la camera obscura c’era ed era a portata di mano. Però, bisognava copiarla con la matita e riempire, poi, i bordi tracciati, con i colori. Sarebbe stato davvero formidabile poter rendere fissa questa immagine sulla carta e sui fogli da disegno, senza l’intervento della mano dell’artista! Questo deve essere stato, il vero sogno di tanta gente se, in un certo periodo della storia, troviamo decine di persone impegnate nelle ricerche per fermare quella immagine del sole senza l’intervento dell’artista. La fotografia avrebbe potuto nascere già molto prima di quanto essa effettivamente vide la luce. Le fondamenta su cui essa si sarebbe basata erano già note da tempo. La camera oscura era conosciuta fino dai tempi di Aristotele e l’effetto delle sostanze chimiche che sarebbero state poi usate era in parte già noto. Ciò che venne a mancare fu quel particolare connubio di mezzi tecnici, intuizioni, casualità e fortuna che più tardi si è poi verificato. In molti e per primo in modo scientifico, nel diciottesimo secolo, l’inglese Thomas Wedgwood (1771-1805), mancò di poco il bersaglio, infatti con l’aiuto dell’amico Sir Humphrey Davy, Wedgwood, che era figlio di un noto ceramista, riuscì ad ottenere deboli immagini su pelle bianca sensibilizzata col nitrato di argento. Non riuscì però a fissarle in modo stabile e le sue fotografie potevano essere viste solo furtivamente alla luce di una candela. Appena esposte alla luce semplicemente svanivano. Wedgwood fu sfortunato: morì tre anni dopo senza poter portare a termine i suoi studi. Ancora qualche anno e forse sarebbe riuscito nell’intento di rendere stabili le sue immagini e la paternità della fotografia sarebbe stata sua. Quindi, tutti questi ricercatori, potremmo definirli così, oggi, si erano accorti che il sole aveva alcune proprietà straordinarie: anneriva la pelle di chi vi si esponeva ed era anche in grado di svolgere una strana azione su sali a base di argento. Quei sali, esposti alla luce, divenivano scuri. Come è noto, fino a ieri, alla base della fotografia, c’era sempre la proprietà della luce di annerire i sali di argento contenuti nelle emulsioni fotografiche. Tentando un’analisi con la mentalità di oggi di quel periodo, si ha la netta sensazione che queste ricerche procedessero molto casualmente e senza alcun legame fra loro. Le scoperte erano, però, senz’altro frutto di una grande passione e del desiderio dell’uomo di capire fino in fondo i fenomeni che lo circondavano: soprattutto quelli della natura. Appartenevano, comunque, ad una classe ben precisa coloro che allora potevano permettersi il lusso di condurre esperimenti e di avere in casa strumenti vari per fare prove e tentativi di ogni genere. Si trattava, quasi sempre, di preti, frati, ricchi possidenti, principi, nobili, militari di grado piuttosto elevato, scienziati e studiosi già noti, qualche maestro artigiano e funzionari o consiglieri dello stato. Fu proprio ad un militare che riuscì per primo l’impresa di fissare l’immagine del sole. Si chiamava Joseph Nicèphore Niépce e prestava servizio nell’esercito francese. Niépce, nella storia della fotografia, è un personaggio che ispira molta tristezza. Lavorò per anni sperimentando con tenacia e diede alla nascita della fotografia un contributo davvero fondamentale. Avversato, sempre, da uno stato di salute precario, fu praticamente truffato quando era invece giusto che raccogliesse il frutto delle proprie fatiche. Niépce nacque nel 1765 , a Chalon sur-Saone, da una famiglia abbastanza ricca e abbastanza in vista.  Suo padre era consigliere del re e sua madre, figlia di un noto avvocato, aveva considerevolmente arricchito il patrimonio della famiglia. Il ragazzo studiò per diventare sacerdote (nelle famiglie bene dell’epoca, almeno un figlio prete era necessario), ma la cosa evidentemente non lo entusiasmava troppo se nel 1792 decise di arruolarsi nell’esercito. Divenne ufficiale e fu mandato in Sardegna per un lungo periodo. Non è dato sapere se a causa del clima o per altri motivi, Niépce si ammalò. Fu un duro colpo. Alcuni storici francesi affermano che tossiva ininterrottamente, portandosi il fazzoletto alla bocca. Altri giurano, invece, che si trattava di un male diverso dalla tisi. Fatto sta che Niépce, smessa l’aria baldanzosa e giovanile dell’ufficialetto, riuscì a farsi dare un posto come impiegato dell’amministrazione statale a Nizza dove rimase per circa sette anni. Nel 1801 tornò a Chalon sur-Saone e si dedicò a studi e ricerche per poter giungere a fissare l’immagine del sole. Si può dire che fu così fino alla sua morte avvenuta nel 1833. Fu infatti Niépce il primo che riuscì a rendere permanente un’ immagine, oltre ad inventare un diaframma per avere dalla camera obscura figure migliori. Il suo apparecchio fotografico, realizzato in zinco, incorporava un soffietto quadrato a fisarmonica e un altro un diaframma ad iride variabile, prototipi dei dispositivi dei moderni apparecchi fotografici. Egli, sicuramente, era a conoscenza degli studi già compiuti da altri a proposito della proprietà della luce di scurire le sostanze che contenevano l’argento ed i suoi derivati. Furono esperimenti lunghi e faticosi che Niépce ebbe la pazienza di condurre per mesi e per anni. Esiste una immagine su peltro scattata da Niépce che risale al 1822. Fu ottenuta con otto ore di posa ed è possibile vedere, ai due lati dell’immagine, la luce del sole. Dopo il peltro e il rame, Niépce utilizzò, per le sue eliografie, così venivano chiamate,  il rame argentato che dopo l’esposizione, veniva fatto passare sopra vapori di iodio. Questi avevano il potere di togliere ogni traccia di bitume fino a scoprire il metallo sul quale, appunto, questo era stato steso. I vapori annerivano l’argento mentre le parti protette dal bitume rimanevano chiare. Ma era ancora tutto così difficile e complicato e Niépce, a forza di investire denaro negli esperimenti, era rimasto senza un franco. Nel 1829 (a 64 anni suonati) ne aveva già abbastanza della eliografia e le possibilità di sfruttare commercialmente gli esperimenti eliografici sembravano davvero poche. A questo punto, nella ricerca di Niépce si inserisce un curioso personaggio: Louis Jacques Mandé Daguerre che a Parigi era conosciuto da tutti per una specie di baraccone che aveva messo su per fare soldi: il diorama. Vi si proiettavano grandi allegorie ottenute dallo stesso Daguerre maneggiando abilmente la camera obscura e colorando ad olio i disegni ottenuti. Ma chi era Daguerre? Dominato fin dall’infanzia dalla vocazione per la pittura non aveva saputo resistere alla vita di impiegato dell’ufficio imposte indirette dove le aspirazioni paterne lo avevano confinato. Abbandonato il paese natale Cormeilles, per tentare la grande avventura di Parigi divenne allievo di un famoso scenografo, ne seguì le orme acquistando ben presto perizia e fama. Nessuno meglio di lui sapeva mascherare con accorgimenti pittorici le numerose e grossolane macchine di scena; nessuno, agli inizi del secolo scorso,conosceva come lui l’arte di sedurre gli spettatori con gli artifici della prospettiva. Si compiaceva soprattutto di comporre paesaggi vaporosi, effetti di tramonti e di notturni lunari, le scene più solenni della natura. Una trovata di Da guerre è rimasta memorabile. L’11 luglio 1822 aprì al pubblico uno spettacolo assolutamente nuovo per quell’epoca e pieno di sorprese e di illusioni: il Diorama che fece furore per diciassette anni, fino a quando il 3 maggio 1839, un incendio lo distrusse in meno di due ore. Ricostruito poco tempo dopo fu per un nuovo sinistro ridotto in cenere una seconda volta. Il Diorama era una sala circolare capace di contenere 350 persone. Lo spettacolo consisteva nella presentazione, su una piattaforma girevole, di vedute dipinte su tele di cotone trasparenti. Queste erano disposte prospetticamente su una profondità di 15-20 metri. Ogni quadro poteva raggiungere la lunghezza di 22 metri e la larghezza di 14 ed era illuminato in modo da ottenere un gioco di ombre e di chiaroscuri capaci di riprodurre con fedeltà incredibile tutti gli effetti della luce in natura, cioè rappresentare, per esmpio, un paesaggio o un interno immerso nel sole splendente o nella nebbia o nella penombra del crepuscolo. Il pubblico poteva assistere perfino alla scena suggestiva della chiesa di Saint Etiènne du Mont che man mano si illuminava per la celebrazione della Messa di mezzanotte con l’entrata dei fedeli. Altre rappresentazioni rimaste famose furono i panorami del Monte Bianco e dell’Isola di Sant’Elena e della Basilica di San Pietro a Roma. Condotto dai suoi studi di pittura, di prospettiva e di ottica, di fronte al problema del fissaggio delle immagini ottenute per azione del sole, Daguerre aveva appreso, nel gennaio del 1826, che questo problema era stato risolto già da qualche anno da Niépce. Era subito entrato in corrispondenza con lui ottenendone diversi saggi di eliografia su piastre di stagno o di rame. Niépce, a sua volta, aveva espresso il desiderio di conoscere i risultati di analoghi esperimenti annunciati da Da guerre. Ma questi non volle o non poté inviargli in cambio nessun campione dei propri lavori, benché continuasse ad affermare di aver scoperto un procedimento diverso da quello di Niépce, anzi superiore. Al primo incontro tra Nièpce e Daguerre del 1827 ne seguirono altri, sempre più frequenti, finchè, avendo Daguerre affermato di aver apportato alla camera oscura un perfezionamento considerevole tale da costituire un procedimento più semplice e sicuro per il fissaggio delle immagini, Niépce gli propose di unire i loro sforzi per imprimere alle loro scoperte un progresso più rapido e assicurarsene i benefici. Il contratto societario fra i due fu firmato il 14 dicembre 1829. Vi si legge: il signor Daguerre invita il signor Niépce ad unirsi a lui allo scopo di perfezionare un nuovo metodo scoperto dal signor Niépce per fissare le immagini della natura senza dover ricorrere all’opera di un artista. Nell’affare, Niépce metteva i suoi studi e il frutto dei suoi esperimenti e Daguerre un nuovo adattamento della camera oscura, il suo talento e la sua opera. Come si vede Niépce metteva davvero, nella società, il frutto di anni di ricerche e Daguerre solo un sacco di parole. Ma anche Daguerre aveva qualche freccia nel proprio arco, fu lui, infatti, a fare una serie di esperimenti, sempre in base alle ricerche di Niépce, utilizzando il vapore di mercurio con il quale riuscì a rendere visibile l’immagine sviluppandola. Ci vollero una decina di anni di ricerche per arrivare a questo risultato da considerarsi tanto più importante in quanto lo stesso Daguerre poté procedere anche al fissaggio delle immagini ottenute (rendendole cioè permanenti) utilizzando sale da cucina e acqua per sciogliere l’ioduro d’argento non colpito dalla luce. E’ chiaro, comunque, che la messa a punto del procedimento era dovuta soprattutto agli studi compiuti da Niépce ed ai tentativi fatti da quest’ultimo nel corso degli anni. L’immagine ottenuta si poteva vederla, solo piegando di lato il supporto in modo da evitare la illuminazione diretta. Al sole appariva come una lastrina di metallo pura e semplice. Si trattava, ovviamente, di una copia unica che non permetteva duplicati. Il vecchio Niépce non c’era più: era morto in miseria a 68 anni. Il figlio Isidoro, che aveva ereditato nella società la parte del padre, era un debole e un disperato. Fu facile per Daguerre fargli firmare un contratto nel quale si riconosceva che l’inventore del dagherrotipo (così fu chiamata subito l’immagine su metallo messa a punto da Daguerre) era lui e solo lui. Comunque, Daguerre tentò immediatamente di vendere la formula per fissare le immagini del sole. Tentò, inoltre, di organizzare subito una società con una pubblica sottoscrizione e quando si accorse che l’iniziativa non avrebbe mai avuto successo chiese, senza mezzi termini, ad alcuni uomini d’affari 250 mila franchi per cedere l’invenzione. Per far crescere l’interesse e l’importanza della scoperta, Daguerre si sobbarcava ad ogni genere di fatica. Tanto fece e tanto trafficò da riuscire ad interessare direttamente il notissimo e influentissimo astronomo François Arago che il 7 gennaio 1839 lesse una relazione sulla dagherrotipia alla Accademia delle Scienze, raccontando mirabilie. Mostrò una serie di dagherrotipi e propose al governo di acquistare l’invenzione per la quale predisse, a ragione, un grande avvenire. La nascita ufficiale della fotografia viene fatta risalire quindi al 1839 anche se la dagherrotipia in realtà era stata messa a punto nel 1837, ma le prime fotocamere cominciarono ad apparire sul mercato soltanto due anni dopo. François Arago disse anche che la Francia offriva questa invenzione al mondo senza sapere che Daguerre aveva già brevettato, qualche giorno prima, la propria scoperta in Inghilterra e convinse Daguerre ad accettare dallo stato una pensione di 6.000 franchi l’anno e una di 4.000 franchi per Isidore Niépce. Anche le loro vedove avrebbero avuto una pensione di stato. Il decreto con il quale si acquistava il dagherrotipo e si concedevano le pensioni fu definitivamente approvato il 19 agosto 1839. Il procedimento dagherrotipico fu così reso pubblico. Il giorno dopo la relazione di Arago alla Accademia delle Scienze, il cognato di Daguerre, un cartolaio dai riflessi rapidi, stampò, d’accordo con il parente, un manuale sul dagherrotipo di 79 pagine e riuscì a vendere tutte le macchine fotografiche che aveva già messo a punto, in precedenza, insieme a Daguerre. Questi apparecchi recavano, ognuno, una firma di autentificazione dell’inventore. Insieme alla attrezzatura per il laboratorio, un completo per dagherrotipia poteva pesare anche una cinquantina di chilogrammi. Questi apparecchi  consistevano in due scatole: la superiore dotata di vetro smerigliato scorreva all’interno di quella frontale contenente l’obiettivo. Impiegavano lastre metalliche nel formato 16,5x21,5cm, l’obiettivo standard presente sui dagherrotipi era costruito dall’ottico francese Charles Chevalier ed aveva una lunghezza focale di 36cm  ed era contenuto in una montatura di ottone, con un disco sempre di ottone che fungeva da otturatore. L’apertura effettiva veniva ridotta a f/14 da un diaframma con foro di 28,5mm posto all’interno del tubo e ciò dava una notevole profondità di campo all’immagine. Il dagherrotipo aveva bisogno, oltre all’apparecchio fotografico vero e proprio, anche di una cassetta per le lastre, della scatola di ionizzazione, della scatola per lo sviluppo al mercurio, della lampada a spirito ed altri accessori, ecco spiegato il notevole peso di questa attrezzatura. Del manuale sul dagherrotipo furono stampate, in Francia, almeno trenta edizioni. Nel giro di un anno era già stato tradotto addirittura in tutte le capitali del mondo. In Italia la notizia della nascita della fotografia viene pubblicata con grande rilievo da tutti i giornali.  A Pisa, nel corso di una delle più grandi assemblee di scienziati e dotti mai riunitasi prima in Italia, si scattano alcuni dagherrotipi che destano stupore, eccitazione, entusiasmo. Sono trascorsi solo alcuni mesi dall’annuncio ufficiale di Arago e per il nostro Paese, l’esperimento di Pisa, è la prima grande consacrazione ufficiale della fotografia. Ovviamente, altri sperimentatori, in Europa soprattutto, affermarono di essere stati i primi a mettere a punto il procedimento che ora veniva chiamato dagherrotipia, ma il socio di Niépce, sicuro del fatto suo, non si scompose mai. Guadagnò un sacco di soldi e divenne una delle persone più famose dell’epoca. E’ certo che se non fosse stato per la sua diabolica abilità nel commerciare e trafficare, la Francia, ufficialmente, non sarebbe certo arrivata prima a dichiararsi proprietaria della straordinaria invenzione. Erano certamente già in molti ad avere messo a punto procedimenti similari a quello di Daguerre e ad avere sperimentato con successo formule chimiche che avrebbero portato, comunque, ad un qualche procedimento buono a fissare le immagini della luce. La scoperta ottico-pittorica di Daguerre era appena stata annunciata che già vi furono apportate una serie di modifiche importanti: una fu quella del viraggio all’oro dei dagherrotipi. In questo modo l’immagine appariva più contrastata e i vantaggi erano evidenti. Se gli altri continuarono a studiare e ad arricchire il procedimento, Daguerre, dopo avere spiegato a tutti i propri metodi e dopo aver dato prove e dimostrazioni, si ritirò in campagna ad una quindicina di chilometri da Parigi dove morì il 10 luglio 1851 all’età di 64 anni. Il paesetto dove è sepolto si chiama Bry-sur-Marne. Non meno importanti, a parte gli inventori fasulli e i profittatori, furono gli studi dell’inglese Henry Fox Talbot. La lettura della relazione di Arago alla Accademia delle Scienze fu un grosso colpo per lui. Cultore delle scienze e in particolare di quelle in rapporto con la luce, studiava da anni sali vari ed effetti con un certo successo. Ora stavano per defraudarlo di quella che egli riteneva la propria invenzione. Talbot si precipitò, allora, a rendere noto il procedimento che aveva messo a punto. Non era poi così complicato come poteva sembrare, L’erudito signore inglese immergeva un foglio di carta in una soluzione di sale e quando questo era asciutto tuffava lo stesso foglio in una soluzione di cloruro d’argento che era, notoriamente, sensibile alla luce. A differenza del dagherrotipo, con il foglio di carta di Talbot reso trasparente con l’uso di cera, si ottenevano più copie. Poi ulteriori ricerche, portarono Talbot a sviluppare la carta sensibile con acido gallico ed a fissare l’immagine ottenuta con iposolfito riscaldato. Quindi avveniva l’essicazione e si provvedeva a rendere trasparente la carta con l’uso della cera. Le negative ottenute venivano, a questo punto, messe a contatto con un altro foglio di carta al cloruro d’argento e si esponeva il tutto al sole per ottenere una immagine positiva. Insomma fu Talbot ad inventare il procedimento negativo-positivo che ancora oggi è a base della fotografia analogica. Il risultato era tutt’altro che perfetto. La finezza di toni dei dagherrotipi era ancora insuperata. Comunque, Talbot battezzò queste sue immagini Talbotypes dopo averle a lungo chiamate calotypes. Talbot illustrò la propria scoperta nel libro La matita della natura, pubblicato nel 1814 e contenente, per la prima volta nella storia dell’editoria, anche un buon numero di foto. Il gentile e distinto signore di campagna, con il passare del tempo e dopo aver reso nota la tecnica usata, si trasformò, purtroppo in un personaggio un po’ acido e attaccato al denaro. Cercò di brevettare il suo procedimento e fece causa a chi lo usava senza autorizzazione e senza pagare una tangente. Finì per rimetterci. Aveva richiesto altri brevetti ed esigeva soldi da tutti attirandosi antipatie a non finire. Un giorno, una sentenza della magistratura mise fine al suo monopolio. Fra l’altro, nella foga di mettere le mani su tutto, Talbot utilizzò, senza farne il nome, anche idee, soluzioni tecniche e chimiche che gli erano state suggerite dal grande astronomo inglese sir John Herschel. Era stato proprio Herschel ad ottenere una prima fotografia su carta sensibilizzata con carbonato d’argento e fissata con iposolfito di sodio, il 29 gennaio 1839. Aveva presentato, a questo proposito alla Reale società di scienze, una memoria sull’arte della fotografia, ma decise onestamente di ritirarla per non sminuire il lavoro di Talbot al quale suggerì, fra l’altro, idee e trovate di ogni genere senza ricavarne niente. Herschel aveva già affrontato e risolto problemi connessi alla fotografia in brevissimo tempo mentre tutti gli altri, Niépce e Daguerre compresi, avevano impiegato anni di ricerche e tentativi. E’ sempre Herschel che introdusse, nel gennaio 1840, i termini negativo e positivo. Nel 1839 aveva già utilizzato le parole fotografare e fotografico (dal greco). Ottenne sempre nel 1839, anche la prima fotografia su vetro e nel 1842 mise a punto il procedimento cianografico. Vent’anni dopo, il grande scienziato pronuncerà anche una parola magica divenuta, da allora, un po’ il simbolo della fotografia: istantanea. Autentico studioso e vero uomo di cultura Herschel fu sempre prodigo di consigli con tutti e non si preoccupò mai di ricavare denaro dalle proprie scoperte. E’ uno dei pochi, nell’ambito della storia della fotografia, ad aver dato molto ed aver preso poco: davvero un raro esempio di coerenza e di dignità. La camera obscura, tutto sommato è però un attrezzo ancora molto primitivo: una cassetta a tenuta di luce con una specie di obiettivo composto da una sola lente, il cosiddetto menisco semplice. Iniziò la corsa alla miniaturizzazione e nel 1840 Alexander S. Wolcott brevettò un apparecchio fotografico a specchio. Al posto dell’obiettivo la cassetta aveva una grande apertura attraverso la quale la luce colpiva, all’interno, uno specchio concavo di 18 cm che rifletteva e formava un’immagine sulla lastra sensibilizzata rivolta verso lo specchio. I vantaggi erano diversi: accogliere più luce e non invertire l’immagine, ma lo specchio avendo lunghezza focale ridotta, limitava le dimensioni del ritratto a 5cmx2cm e l’immagine era leggermente morbida. Si ebbe inoltre la riduzione delle esposizioni da tre a cinque minuti e con la scoperta dell’accelerazione chimica della lastra i tempi furono ulteriormente ridotti. Successivi cambiamenti sugli obiettivi resero possibile la ripresa di ritratti di dimensioni maggiori. Infatti già nel 1840 il prof. Joseph Petzval, grande ottico e grande matematico ungherese, progetta e calcola un obiettivo a quattro lenti di luminosità f/3,7 che fa giungere sul materiale sensibile una quantità di luce almeno sedici volte superiore a quella che il menisco semplice lasciava passare. Il nuovo obiettivo viene subito fabbricato e messo in commercio dall’ottico Peter Voigtlaender di Vienna che sarà il fondatore di una delle più note case per la fabbricazione di apparecchiature fotografiche. Ciò, di fatto, rese possibile la nascita della fotografia di ritratto mentre prima il dagherrotipo munito dell’ottica originale lo rendeva adatto solo alla fotografia di soggetti statici. si possono fare fotografie, in quel periodo, con esposizioni inferiori ad un minuto. E’ già un progresso enorme se si pensa che in precedenza, una normale esposizione per ritratti si protraeva fino a cinque minuti ed era necessaria anche la piena luce del sole. E’ il periodo, non ci sono dubbi, delle grandi fortune e dei grandi entusiasmi per la fotografia. Non si può non ricordare, per esempio, l’importantissimo contributo dato alla fotografia dal francese Louis Blanquart-Evrard che perfezionò sensibilmente il sistema calotipico o talbotipico (messo a punto da Talbot). Blanquart-Evrard ricoprì con chiaro d’uovo la carta, per trarne negativi con una superficie molto liscia. Questa carta, con i perfezionamenti dello specialista francese, fu utilizzata in seguito, per la stampa. La chiamarono carta-albumina. Anche Blanquart-Evrard non aveva certo lavorato per la gloria. Doveva vivere e mise su un negozio dove si vendevano foto di architettura e di viaggi. La lotta parallela per mettere a punto sempre migliori materiali sensibili e perfezionare la camera oscura e gli obiettivi, continuava intanto in ogni nazione. Ormai era chiaro, per esempio, che il calotipo non rendeva bene i particolari e che la brillantezza delle immagini lasciava a desiderare. Fu così che si tentò di utilizzare, come supporto ai sali d’argento sensibili alla luce, il vetro. Ma le difficoltà stavano proprio nel fatto che i sali d’argento non rimanevano bene aderenti alle superfici lisce. I tentativi per questo matrimonio andarono avanti per diverso tempo. Si provò perfino con la bava delle lumache. Nel 1847 appare alla ribalta internazionale del mondo fotografico un nome già tanto famoso nella storia dell’immagine ottica: quello di Niépce, ma questa volta si trattava di Niépce de Saint Victor, nipote di Nicèphore. Niépce di Saint Victor, scienziato e chimico dilettante, aveva letto degli esperimenti di sir John Herschel a proposito di un supporto ideale per i sali d’argento sensibili e si dedicò alla ricerca per ottenere l’unico risultato che egli riteneva fondamentale per la fotografia: trovare una sostanza per fare aderire perfettamente l’argento sensibile ad un supporto vetroso. Provò con l’amido e la gelatina, ma fu tutto inutile. Infine, tentò anche con il bianco dell’uovo al quale aggiunse ioduro di potassio, bromuro di potassio e sale: il risultato, per la prima volta dopo tante prove, parve positivo. Questa strana mistura che somigliava più ad una crema adatta alla cucina che ad un prodotto per la fotografia doveva essere ogni volta, filtrata attraverso un panno. La soluzione così ottenuta, fu utilizzata per ricoprire le lastre di vetro che venivano tuffate, successivamente, nel nitrato d’argento. La lastra poteva essere messa nella macchina fotografica sia asciutta come bagnata. Asciutta richiedeva ancora tempi di posa più lunghi di quelli necessari per un dagherrotipo o un calotipo. Nel 1848 Niépce di Sain Victor comunicò ugualmente la propria scoperta all’Accademia delle Scienze di Parigi. Altri miglioramenti fecero della carta all’albume, come fu chiamata, un prodotto di larghissimo consumo per oltre quarant’anni. Il consumo di uova nel mondo era cresciuto, dal 1848 in poi, in modo spaventoso. Tra il 1890 ed il 1900, la Dresden Albuminpapier Fabrik, una grande ditta europea per la produzione di carta albuminata consumava nei suoi stabilimenti 60.000 uova al giorno. Si utilizzava il bianco ed il rosso veniva gettato o venduto. Era quindi una impresa economicamente vantaggiosa, in quel periodo, anche mettere su allevamenti di galline ad uso... fotografico. Ed ecco, con il 1851, un altro salto e un altro passo avanti nelle scoperte connesse alla fotografia. Frederick Scott Archer, architetto e fotografo appassionato, annuncia di aver messo a punto il procedimento al collodio. Si tratta di un miscuglio di fulmicotone (nitrato di cellulosa) ed alcool, già da tempo utilizzato in medicina per suturare le ferite. Il prodotto, asciugandosi, lascia una specie di foglio pellicolare che aderisce perfettamente alle lastre di vetro. All’intruglio viene aggiunto ioduro di potassio e la lastra così trattata al buio assoluto, viene, ogni volta, immersa nel nitrato d’argento e viene inserita in uno chassis come quelli usati per le macchine fotografiche odierne (macchine da studio). Per lo sviluppo delle lastre impressionate si fa uso di acido pirogallico o solfato ferroso. La lastra viene comunque esposta nella macchina fotografica ancora umida, per questo il procedimento fu detto a lastra umida. Sempre nel 1851 Richard Willatts presentò un modello di apparecchio fotografico portatile di nuove concezione. Grazie a un corpo di stoffa conico a espansione, era leggerissimo e, pur essendo in grado di riprendere immagini 21,5cmx26,5cm, misurava 10cm di spessore una volta ripiegato. Il dorso era montato su una piastra scorrevole, che poteva essere fissata a qualsiasi distanza dall’obiettivo, consentendo,così, l’uso di diverse lunghezze focali. Già nel 1850 Marcus Sparlino progettò il primo apparecchio a magazzino. Dieci fogli di carta sensibilizzata potevano essere messi in contenitori separati, sistemati in una specie di magazzino dopo l’esposizione, ciascun foglio veniva lasciato cadere in un reticolato posto al disotto dell’apparecchio fotografico. Melhuisch e Spencer nel 1854, brevettarono la prima pellicola in rullo. Il materiale (carta oleata) era avvolto su una bobina ricevente. Quasi contemporaneamente, H.J. Barr trovò il sistema per fissare fogli di carta sensibilizzata su un nastro di tela nera, lasciando circa 5cm di spazio tra ciascun foglio. Il nastro veniva arrotolato su una bobina e riavvolto sull’altra nel modo solito. Le immagini venivano tolte dal nastro e sviluppate una per una. Questo sistema era più semplice di quello di Melhuish e Spencer nel quale il rullo di carta doveva essere contrassegnato per ciascuna immagine e tagliato prima dello sviluppo. Fu solo nel 1875 che venne realizzata la prima pellicola in rullo, da L. Warnerke che stese una emulsione di gelatina su di un supporto cartaceo, la quale era sensibile alla luce, e ciò permise che dopo l’esposizione il negativo veniva separato per permettere il trattamento di stampa. Nel 1871, il microscopista inglese Richard Leach Maddox, medico di chiara fama e appassionato fotografo, annuncia la messa a punto di un nuovo procedimento fotografico: quello con emulsione alla gelatina contenente bromuro d’argento. Il collodio, sostiene Maddox, può, ora, essere sostituito con grande vantaggio per tutti e soprattutto per la praticità e la semplificazione delle operazioni ortografiche. Al momento della messa a punto del nuovo procedimento chimico le lastre alla gelatina si impressionavano meno velocemente di quelle al collodio, ma successivi perfezionamenti la migliorarono  e nell’agosto 1879 vennero descritte, con tutti i dettagli, le operazioni necessarie per la produzione industriale delle lastre alla gelatina. Questo per quanto riguarda l’immagine negativa, dalla quale si possono poi ricavare molte riproduzioni chiamate positive. Il fotografo, da quel momento, non ha più bisogno di preparare in proprio le lastre e di portarsi dietro l’intero laboratorio fotografico. Finiva un’epoca e ne cominciava davvero un’altra. Nel febbraio del 1892, i giornali di tutto il mondo pubblicano un disperato appello per una sottoscrizione a favore del dott. Maddox che sta morendo di fame. Dice l’annuncio: egli (Maddox) non si cura di profittare finanziariamente della sua scoperta ed ora giunto alla vecchiezza trovasi in una situazione economica delle più precarie. A Londra - continua l’appello - è già stato costituito un comitato per la raccolta nel regno. Un comitato internazionale è stato istituito a Southampton. Lo presiede il sindaco della città. Il comitato ha già invitato le riviste fotografiche di tutto il mondo a collaborare. Ed eccoci ad un’altra svolta fondamentale nella storia della fotografia: la scoperta della celluloide, ottenuta da Alexander Parkes già nel 1861. Comunque, solo nel 1888 vengono fabbricate pellicole di celluloide abbastanza sottili per essere utilizzate come supporto rigido al posto del vetro. La celluloide viene quindi, per la prima volta nella storia della fotografia, ricoperta da uno strato di emulsione alla gelatina bromuro e tagliata a seconda dei formati necessari. Le lastre alla gelatina a secco semplificarono la tecnica fotografica e ridussero l’attrezzatura all’incirca come quella attuale; contemporaneamente la carta rapida al bromuro rese possibili gli ingrandimenti. Verso la fine del XIX secolo, il dagherrotipo sparì definitivamente e, sebbene la gran parte delle fotocamere in circolazione fossero ancora dei veri e propri banchi ottici, cominciarono ad apparire le  alternative, prime fra tutte le box e le folding.

Il Signor Kodak

George Eastman futuro fondatore della famosissima Kodak, nasce a Waterville, nello stato di New York, il 12 luglio 1854. E’ il più giovane di tre figli. All’età di cinque anni si trasferisce con la famiglia a Rochester. A causa della improvvisa morte del padre, la madre si trova nella necessità di mandare a lavorare i propri figli compreso il quattordicenne George che inizia a prestare attività in una compagnia di assicurazioni. La sera, tuttavia, frequenta una scuola di ragioneria, perché è sua intenzione impiegarsi in una banca. Nel frattempo ha iniziato ad appassionarsi di fotografia e a 24 anni Eastman parte per Santo Domingo con una macchina fotografica enorme ed un altrettanto gigantesco treppiede. Lavora in banca, ma la passione per la fotografia lo induce, dopo l’orario di ufficio, a preparare lastre di vetro con gelatina liquefatta e resa sensibile. Eastman lavora di notte, in casa. Il rivestimento del supporto di vetro avviene a mano, ma ben presto il bancario che poi butterà per aria registri e scartoffie per dedicarsi a questo strano lavoro, mette a punto una macchina che provvede alla bisogna. Nel 1881, Eastman che nel frattempo è già riuscito a mettere in piedi una specie di piccola industria a conduzione familiare, lascia la banca definitivamente per continuare a fabbricare lastre asciutte. Il merito di Eastman non sta tanto in questo suo primo successo – non è l’inventore della lastra a secco, ha semplicemente preparato per il mercato americano un prodotto, studiandolo e perfezionandolo, già esistente in Europa – quanto nello sviluppo che egli ha dato alla Kodak e nelle innovazioni che ha introdotto in campo fotografico. Per un bel pezzo, molte di queste lastre già vendute a molti fotografi, perdono presto di sensibilità o si guastano irrimediabilmente. Eastman non si scompone: avuto indietro il materiale difettoso lo cambia dandone del nuovo senza fare pagare i clienti. E’ finalmente nel 1889, dopo ricerche e nuovi tentativi, che l’ingegnoso affarista americano comincia la produzione di pellicola a base di nitrato di cellulosa. La disponibilità di questa pellicola flessibile permetterà a Thomas Edison, nel 1891, di sviluppare e perfezionare la sua cinepresa ed il suo proiettore. Con questa innovazione si può dire che sia nato il cinematografo. La pellicola di celluloide, per la verità era già stata sperimentata nel 1887 da un prete, il reverendo Hannibal Goodwin morto sconosciuto senza aver tratto guadagni dai propri studi. Goodwin, fra l’altro, ancor prima del 1881 aveva messo a punto un procedimento alla colla per ottenere lastre litografiche: il famoso processo che fu chiamato fotocollografico e che serviva al perfetto trasferimento dell’immagine ottica dal supporto ai sali d’argento al supporto inchiostrabile per la stampa tipografica. Furono, comunque, gli eredi di Goodwin a far causa alla ditta di Eastman che dovette, al termine di una causa protrattasi per circa dieci anni, pagar loro un forte compenso. Nel 1888, Eastman progetta e costruisce una macchina fotografica diventata famosa nel mondo, la Kodak. Si tratta di una macchina a cassetta che viene caricata con pellicola avvolta su un rocchetto. Si possono così ottenere, ogni volta, circa 100 fotografie rotonde, del diametro di sei centimetri. La cassetta ha, nella parte frontale, un forellino con una lente ed è di uso facilissimo. L’apparecchio viene venduto già caricato con la pellicola. Quando le foto sono state tutte scattate, si deve restituire l’apparecchio alla casa che manda indietro la Kodak nuovamente caricata insieme alle fotografie riuscite del rullo precedente. La Kodak è forse la macchina che più di ogni altra ha contribuito a rendere popolarissima la fotografia in tutto il mondo.  La casa vende migliaia e migliaia di apparecchi sbandierando ai quattro venti il motto: “voi premete il bottone, noi faremo il resto”. In breve tempo, le macchine fotografiche a cassetta in giro per il mondo sono milioni e l’impero Eastman cresce a dismisura. Nel 1895  nasce invece il primo apparecchio fotografico… tascabile. Con alcune parti in alluminio, utilizza pellicole flessibili trasparenti caricate in rullino e porta una piccola finestra per permettere di leggere il numero del fotogramma da esporre. Nel 1896 la Kodak mette in commercio la prima pellicola positiva per le riprese cinematografiche; un grande colpo per la nascente industria del cinema che fino ad ora era stata costretta ad usare le stesse pellicole utilizzate per gli apparecchi fotografici. Con l’apparecchio fotografico Brownie, uscito nel 1900, proprio al nascere del XX secolo, la Kodak per prima ha dato a tutti la possibilità di fare fotografia. Questo apparecchio, infatti, poteva essere acquistato al prezzo di un dollaro e la pellicola costava 15 cents. Nel 1902, secondo una statistica dell’epoca, la casa americana dell’ex bancario produce dall’80 al 90 per cento delle pellicole su rullo. La Kodak, come mai altre macchine prima, sviluppa il gusto per la istantanea, il gusto per le foto all’aperto e sviluppa anche il gusto e il senso del reportage. La Eastman diviene un vero e proprio impero commerciale per il quale lavorano migliaia di tecnici e specialisti per mettere a punto pellicole e materiale sempre più perfezionato. Eastman si reca spesso a Parigi dove ha contatti con Nadar figlio e con i fratelli Lumière, gli inventori del cinematografo. I due fratelli, per anni, avevano studiato e risolto moltissimi problemi connessi all’uso delle macchine fotografiche e del materiale sensibile. La primitiva pellicola Kodak al nitrato di cellulosa, molto infiammabile e quindi pericolosa, fu sostituita, più tardi, da un’altra all’acetato di cellulosa che non bruciava. Anni e anni di ricerche hanno richiesto l’opera attenta di tecnici qualificatissimi. Eastman, orgoglioso della sua grande azienda e del suo essersi fatto da solo, segue sempre da vicino il lavoro di questi tecnici e accetta consigli e idee anche da chi non è un vero e proprio professionista. Comunque, ad un certo momento, Eastman comincia ad investire denari anche in fondazioni intestate al proprio nome e in grandiose opere di beneficenza. A 77 anni con la lucidità e la freddezza che lo avevano sempre aiutato nel costruire l’impero Kodak, Eastman si siede ad un tavolo e su un foglietto scrive poche parole di commiato aggiungendo che ormai ha fatto tutto ciò che poteva fare e che quindi può anche andarsene. Poi, si uccide. E’ la fine di un grosso personaggio del mondo della fotografia.


Tra il 1880 e il 1900 furono prodotte centinaia e centinaia di modelli di macchine fotografiche a lastre e con pellicola a rullo. Fra l’altro, nel 1889, si era tenuto a Parigi il Congresso mondiale di fotografia che aveva stabilito usi e denominazioni del materiale ottico e chimico, fissando anche norme tecniche valide a livello internazionale. E’ una necessità perchè il mondo della fotografia appare ormai un’intricata babele: circolano apparecchi fotografici di ogni formato e funzionanti con i più svariati sistemi. Volendo tentare una classificazione di queste macchine si potrebbe, grosso modo, dividerle in macchine con cassetta di ricambio delle lastre (il periodo delle lastre di ricambio coincide già con il collodio secco e la gelatina bromuro) che di solito avevano 12 ricambi su vetro o su pellicola; macchine a magazzino con 12 lastre o quaranta fogli di pellicola; apparecchi fotografici reflex con obiettivo unico e vetro smerigliato a 45° o con due obiettivi (uno per il mirino e uno per la ripresa); apparecchi fotografici con pellicola a rullo. L’otturatore a tendina sul piano focale dell’immagine, viene messo a punto nel 1861, ma solo molto più tardi ha successo come molto più tardi hanno successo le macchine reflex biottica. Gli apparecchi erano, in genere, costruiti in legno con parti di metallo oppure in legno e parti in leghe leggere di metallo, ottone e con soffietti di stoffa gommata.

La Fondazione Carl Zeiss 


Nel 1847 Carl Zeiss inizia la produzione di microscopi usando come obiettivo due semplici lenti accoppiate, o un tripletto. I microscopi costruiti da Carl Zeiss riescono subito a segnalarsi per la qualità ottica e per la estrema accuratezza della costruzione meccanica, vincendo nel 1861 il primo premio all’esposizione di Theuringen. Per i successivi dieci anni Zeiss continua a costruire microscopi usando una attrezzatura artigianale, ma nel 1870 adotta già alcuni macchinari che gli permettono di avviare una produzione di serie che gli apre le porte del mercato scolastico ed universitario. Contrariamente ai metodi produttivi inaugurati da Carl Zeiss, la maggior parte dei fabbricanti di microscopi continuano ad utilizzare una lavorazione artigianale, almeno fino al 1920. Grazie alle pregevoli e accurate realizzazioni di Carl Zeiss viene definitivamente maturato il concetto di microscopio come strumento scientifico di alta precisione, tanto che i più importanti fisici e medici dell’epoca utilizzano microscopi Zeiss. Negli ultimi anni del secolo il medico Robert Koch, annunciando la scoperta del bacillo tubercolare, ringrazia pubblicamente la società Carl Zeiss per l’aiuto determinante dato alle sue ricerche, fornendo alla stessa Zeiss una formidabile pubblicità. a società Carl Zeiss come industria di microscopi si afferma definitivamente nei primi anni del nuovo secolo, grazie all’imbattibile rapporto fra qualità e prezzo dei suoi prodotti e con la presentazione nel 1904 dei microscopi a torretta multipla. La spiegazione del successo dei microscopi Zeiss è dovuta al fatto che, mentre la maggior parte delle ditte dell’epoca preferiscono ancora costruire i propri microscopi utilizzando dei lunghi tubi e delle lenti piatte di facile realizzazione, Carl Zeiss riesce a realizzare dei microscopi con un tubo di visione lungo appena 16 centimetri. Per ottenere questi risultati Carl Zeiss utilizza lenti con una curvatura molto accentuata che richiede una lavorazione molto più complessa. L’impiego di questo tipo di lenti inizia nel 1872, sei anni dopo il fatidico incontro tra Carl Zeiss e il giovane professore di matematica Ernst Abbe, classe 1840, direttore dell’osservatorio di Jena, a cui si deve lo studio sulla condizione di aplanarità dei sistemi ottici. Ma chi era Ernst Abbe? Figlio di un operaio di una filanda che si spaccava la schiena per sedici ore al giorno, senza pausa pranzo, fu aiutato dai sacrifici del padre e dal padrone della filanda a prendere la laurea in matematica, Abbe non dimenticò mai le sue umili origini e la sua vita ne è una testimonianza. Nello stesso anno il catalogo Zeiss comprende ben 17 obiettivi diversi per microscopi, mentre il controllo di qualità è assicurato dallo stesso Carl Zeiss, che, con un martello in mano, si incarica personalmente di distruggere i pezzi non corrispondenti alle caratteristiche volute. Con l’aiuto dei calcoli matematici e delle ricerche scientifiche di Abbe la produzione di microscopi progredisce velocemente, e nel 1876 Carl Zeiss invita Abbe a diventare suo socio in affari. Da quel momento la personalità di Abbe si dimostrerà determinante per il futuro sviluppo dell’azienda. Se l’attività industriale di Carl Zeiss e l’impegno scientifico di Ernst Abbe spianano la strada all’affermazione dei microscopi e degli altri prodotti firmati Zeiss, è con l’incontro con Otto Schott che si realizza la definitiva affermazione dell’azienda. Otto Schott possiede una certa fama nella lavorazione del vetro e nel 1879 invia ad Abbe un nuovo tipo di vetro all’ossido di litio. Abbe rimane talmente affascinato dalle scoperte di Schott che nel 1881 lo invita a Jena. Fra i due scienziati nasce subito un rapporto positivo e molto fecondo e nel 1882 Schott decide di trasferirsi definitivamente a Jena per sviluppare ed ampliare le proprie ricerche in stretta collaborazione con Abbe. Il 21 ottobre del 1883 Carl Zeiss, Otto Schott e Ernst Abbe, associando anche Roderich, figlio di Carl, fondano la società Schott und Genossen (Schott e Soci), riuscendo ad ottenere un importante finanziamento dallo stato prussiano. Il primo di settembre del 1884 viene acceso a Jena il primo forno fusorio per la produzione di vetro ottico e finalmente l’otto di settembre dello stesso anno viene portata a termine la prima fusione. Nel 1886 il primo catalogo della Società descrive ben 44 tipi diversi di vetro e per la prima volta fornisce le caratteristiche dei vetri, come ad esempio l’indice di rifrazione e la dispersione dei colori. Con l’avvio della produzione industriale Schott si apre una nuova era per l’ottica, non più legata ad esperimenti empirici, ma alle reali necessità degli utilizzatori. Grazie alla collaborazione fra Abbe e Schott vengono messi a punto diversi tipi di vetro per i molti campi di impiego. Vengono creati vetri ottici al bario, al fosfato e ai composti di zinco. Grazie alla disponibilità del laboratorio ottico della società Shott und Genossen, Ernst Abbe riesce a realizzare una sua vecchia idea: quella di costruire un obiettivo fotografico il più possibile corretto per le tre linee dello spettro. Questo obiettivo, definito per la prima volta come apocromatico, viene commercializzato nel 1886, aprendo una nuova strada nel settore dell’ottica fotografica. Ernst Abbe, seguendo con generosità i suoi ideali di scienza aperta a tutti, preferisce non brevettare il nuovo obiettivo apocromatico, permettendo così alle società concorrenti di utilizzare commercialmente le proprie scoperte scientifiche. Questa generosità trova spiegazione nella fede in una scienza intesa come strumento per sollevare l’umanità dalle proprie miserie ed afflizioni. Abbe in altre parole dimostra di seguire un filone filosofico e di pensiero tipico dei grandi ricercatori di fine Ottocento. Grazie ai proventi che derivano dall’attività industriale, i settori di interesse della società Carl Zeiss si moltiplicano, l’azienda si dota di una nuova organizzazione produttiva e vengono individuati i responsabili dei diversi settori. Il Dr. Czapski ad esempio si occupa dei telescopi, mentre il Dr. Kunig si occupa dei binocoli e dei vetri ottici. Nel 1886 era entrato a far parte dell’organico della Schott, il dottor Paul Rudolph, nato nel 1858. Al Dr. Paul Rudolph, infine, viene affidata la responsabilità del calcolo teorico e della realizzazione degli obiettivi per usi fotografici, che finiscono per diventare una delle produzioni più apprezzate dell’intera azienda. A conferma del crescente successo commerciale e dell’ampliato campo di interessi, si è nel frattempo passati dai 20 dipendenti del 1861 ai 250 del 1886. Rudolph fu il primo ad utilizzare i vetri di Schott ai fini della produzione di obiettivi fotografici e fu utilizzando tali vetri che nel 1890 presentò il suo primo obiettivo asimmetrico, dotato di quattro lenti in due gruppi, l’obiettivo aveva una luminosità di f/6,3, poi portata a f/4,5; inizialmente fu battezzato Zeiss Anastigmat, poi nel 1900 venne ribattezzato Protar. Nel 1895 vennero accoppiati due Protar, ottenendo così il Doppio Protar (ovvero Doppio Anastigmat). Nel 1896, dopo una lunga e laboriosa ricerca, Rudolph  presentò un nuovo schema ottico, il Planar. Tale nome derivava dalla perfetta planeità di campo ottenibile, Praticamente esente da aberrazioni, il Planar aveva una luminosità di f/3,6 ed era uno schema piuttosto complesso, costituito da sei lenti in quattro gruppi. A causa dell’elevato numero di lenti, il contrasto del Planar risultava molto basso. Se sul piano scientifico dunque il progresso era stato notevole, all’atto pratico il Planar risultava assai poco soddisfacente. Né risultò soddisfacente l’Unar, un obiettivo progettato nel 1899, dotato di quattro lenti e con luminosità f/4,5. Ma Rudolph non si arrese. Con l’ausilio di un valido collaboratore, il dottor Wandersleb, partì da uno schema ottico ben collaudato, il tripletto di Cooke, realizzato nel 1893 da Dennis Taylor per la Cooke & Sons, ridusse la distorsione e migliorò la qualità ai bordi. Aggiungendovi la parte anteriore dell’Unar e quella posteriore del Protar, Rudolph realizzò così nel 1902 un obiettivo con tre gruppi, per un totale di quattro lenti. Fu proprio questo numero, quattro, a suggerire il nome da dare all’obiettivo, che fu così battezzato Tessar (dal greco “tessera”, ovvero “quattro”). Inizialmente il Tessar aveva una luminosità di f/6,3, e grazie all’eccezionale nitidezza fu presto soprannominato “Occhio d’aquila”. Le tre realizzazioni, Unar, Planar e Tessar portarono rapidamente la Zeiss ai vertici dell’industria ottica, ponendola ai massimi livelli nel campo della ricerca ottica e fotografica. Accadde così che un numero sempre maggiore di industrie fotografiche prese a rivolgersi alla Zeiss per gli obiettivi da abbinare alle proprie fotocamere, come la Rollei, la Robot e la Ihagee. Di fatto, il Tessar divenne lo schema ottico standard dell’industria fotografica, finendo quasi col monopolizzare i listini. Nel 1907 venne progettato un Tessar Apocromatico e nel 1909 il dottor Wandersleb, che nel frattempo era stato messo a capo della sezione ricerche della Carl Zeiss, dimostrò come adattare il Tessar a varie lunghezze focali, componendo la parte frontale dei gruppi ottici. Tale scoperta costituisce una pietra miliare della storia dell’ottica e rese possibile, alcuni anni dopo, la progettazione del Tele-Tessar, attuata dal dottor Merte nel 1919. Il Tele-Tessar entrò in produzione nel 1923 e divenne il teleobiettivo più utilizzato nel periodo tra le due guerre mondiali. Nel frattempo a metà degli anni Ottanta la salute di Carl Zeiss, ormai settantenne, comincia a peggiorare. Alla sua morte, sopraggiunta il 3 dicembre 1888, la direzione della società viene assunta da Ernst Abbe, il quale opera una trasformazione radicale nella struttura societaria, dando vita ad una Fondazione intitolata a Carl Zeiss, la Carl Zeiss Stiftung. Sono numerose le industrie fotografiche che nel corso degli anni sono diventate famose per i propri prodotti e per le innovazioni presentate. Fra tutte una soltanto ha avuto il coraggio e l’originalità di assumere la forma giuridica di Fondazione. Questa scelta ha comportato l’accettazione da parte di tutte le società consociate degli stessi ideali, ponendo tra l’altro le diverse società sotto il rigido controllo amministrativo degli organi direttivi della Fondazione stessa. La forma scelta per la Fondazione Carl Zeiss risolve automaticamente l’eterno dualismo tra capitale e lavoro tipico di ogni società industriale. Lo scopo perseguito senza esitazioni dalla Fondazione Carl Zeiss nasce dagli ideali della ricerca scientifica e si basa sul benessere dei dipendenti. Il 19 maggio del 1889 viene ufficialmente creata la nuova Fondazione, che assume di conseguenza personalità giuridica. Nello statuto della Fondazione Carl Zeiss si trovano indicazioni precise sul rapporto fra la dirigenza aziendale e il personale salariato. L’assunzione del personale, per esempio, deve avvenire indipendentemente da considerazioni etniche o religiose, mentre è proibito da parte dell’azienda qualsiasi controllo extralavorativo sulla vita privata dei dipendenti. Il primo aprile 1900 la Zeiss adotta la giornata lavorativa di otto ore, già in uso da tempo in Inghilterra, ma che rappresenta un’assoluta novità per la Germania. Nell’industria tedesca dell’epoca una giornata lavorativa è infatti ancora compresa tra le dieci e le dodici ore. Una seconda innovazione riguarda i concetti di un salario aggiuntivo da corrispondere per il lavoro straordinario e delle ferie pagate dall’azienda assegnando ad ogni dipendente dodici giornate di libertà all’anno, indipendentemente dall’anzianità lavorativa maturata. Nelle altre industrie tedesche all’epoca viene ancora concessa una sola settimana di ferie, ma solo al raggiungimento dei dieci anni di anzianità lavorativa. Inoltre per i dipendenti Zeiss con almeno tre anni di anzianità di lavoro viene accantonata un’indennità di licenziamento. Tutte queste innovazioni non passano inosservate, e Abbe viene accusato di essere un socialista. L’Associazione degli Industriali Tedeschi critica aspramente le scelte della Zeiss, vedendo in esse l’inizio dello sfaldamento dei principi che regolano i rapporti di lavoro in Germania. La dirigenza della Zeiss non solo replica dimostrando come la riduzione dell’orario di lavoro si traduca in un incremento della produttività reale, ma anche sostenendo che per ottenere il massimo impegno lavorativo in vista della massima precisione occorre fornire adeguati incentivi e legare le maestranze all’impresa in maniera organica. Ai nostri giorni i principi su cui si basano queste innovazioni sembrano ovvi, ma per la fine dell’Ottocento sono di una portata sconvolgente tanto che l’Università di Jena arriva a conferire ad Ernst Abbe una laurea di Giurisprudenza honoris causa. In realtà per Abbe, che rimane il principale artefice della carta costituzionale della Fondazione Zeiss, il lavoro non è sinonimo di profitto, bensì di missione. La ricerca tecnologica e il prodotto che deriva da questa devono essere divisi equamente tra tutti i rappresentanti della società, a qualunque livello. Non a caso il motto di Abbe è  noi non apparteniamo soltanto a noi stessi (Wir alle gehoeren nicht uns selber). Fedele sino in fondo alle sue idee, Abbe lascia nel proprio testamento tutto il proprio patrimonio all’Università di Jena. Tra tutte le realizzazioni di Abbe certamente la stesura dello Statuto della Fondazione, che antepone agli interessi individuali l’interesse collettivo della Fondazione stessa rimane la sua opera più ammirata e visionaria. La stesura definitiva dello Statuto della Fondazione viene pubblicata il 26 di agosto 1896. In realtà la Fondazione Carl Zeiss è la Fondazione di Abbe, nella quale egli riesce a trasferire una sintesi tra razionalità ed ideali, creando un’impresa speciale ed immortale. Ma non tutti la pensano come Abbe che estromette Roderich dalla società perché vanta pretese di eredità sulla Fondazione. Abbe vive malissimo il conflitto di interessi col figlio del vecchio socio; viene colto da crisi nervose e soffre di insonnia, così diviso tra affetti ed ideali. Dopo circa due anni di battaglie legali Roderich si ricrede e decide di cedere definitivamente le proprie azioni alla Fondazione. Il miracolo della Fondazione Carl Zeiss si ripete almeno tre volte nel corso della storia e sopravvive al suo stesso fondatore, che scompare nel 1905. Una prima volta al momento della nascita, grazie ad un’impostazione coraggiosa e futuristica. Una seconda volta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando la Fondazione, pur esendo gravemente colpita nell’organico e nelle strutture, e divisa ed umiliata dai vincitori, riesce a risorgere. La terza rinascita è degli anni Settanta, quando la Fondazione, ormai tagliata fuori dal mercato fotografico, riesce a trovare nuove alleanze, nuovi prodotti e nuove nicchie di mercato. Si può dire che la forza della Fondazione Carl Zeiss non risiede nella capacità produttiva, cosa che la renderebbe molto simile ad altre centinaia di aziende sparse nel mondo, bensì nello spirito che da sempre anima la comunità degli uomini che la compongono. Dopo aver costruito e commercializzato obiettivi fotografici di altissimo livello, gli Anastigmat, i Protar, i Planar e gli Unar ed infine i Tessar, cedendoli alle maggiori industrie fotografiche tedesche e straniere dell’epoca, all’inizio del nuovo secolo i dirigenti della Fondazione Carl Zeiss decidono che è giunto il momento per l’azienda di intraprendere in proprio un’attività come costruttore di fotocamere, anche per promuovere meglio la commercializzazione degli stessi obiettivi. La fotografia rappresenta il naturale settore complementare degli interessi della Zeiss. Paul Rudolph, il progettista delle formule ottiche che stanno alla base dei più famosi obiettivi della Carl Zeiss di Jena, pone così anche le basi del successo della Fondazione Carl Zeiss nel campo fotografico. Inizia con il nuovo secolo un processo di assorbimento di industrie fotografiche che porta, nel volgere di poco più di venti anni, alla costituzione del più forte e organizzato consorzio fotografico mai esistito, denominato Zeiss Ikon. Il primo passo del cammino verso la costituzione del consorzio Zeiss Ikon è l’acquisizione, nel 1902, della società Palmos AG con sede nella città di Jena, la stessa città dove ha sede la Fondazione Carl Zeiss. La società Palmos, esistente fino dal 1900, produce accanto ad alcune fotocamere fortemente innovative anche otturatori pneumatici con lamelle metalliche con movimento a iride. La società viene ribattezzata Carl Zeiss Palmosbau e prosegue nella costruzione delle fotocamere Palmos. Le fotocamere Palmos si caratterizzano per aver abbandonato l’otturatore frontale a favore di un otturatore a tendina sul piano focale che arriva fino al millesimo di secondo. Nel 1909 vengono assorbite da parte della società Carl Zeiss altre due industrie fotografiche di Dresda, la società Emil Wuenske e la società Richard Huettig, che attraversano una fase di forte crisi finanziaria, ma viene assorbita anche la società Rudolf Kruegener di Francoforte sul Meno. Assieme alla società Palmosbau, le quattro ditte vengono unite nella nuova società Ica (International Camera Aktiengesellschaft) con sede a Dresda. Due anni più tardi viene incorporata anche la società svizzera G. Zulauf di Zurigo. Ognuna di queste società si caratterizza per un’esperienza e una specializzazione particolare, ed è alla somma di queste esperienze che la Fondazione Carl Zeiss trae nuove energie e nuove ambizioni. Nel decennio successivo alla costituzione della Ica la politica di assorbimento delle industrie fotografiche in crisi finanziaria da parte della Fondazione Carl Zeiss prosegue senza soste, arrivando ad incorporare società molto importanti, come la Contessa Nettel di Stoccarda, la Heinrich Ernemann di Dresda e la società Carl Paul Goerz di Berlino. Questa politica di espansione della Carl Zeiss si rende possibile grazie alla particolare congiuntura economica attraversata dalla Germania nei primi anni Venti. All’indomani della Grande Guerra molte delle industrie fotografiche presenti in Germania versano in gravi condizioni finanziarie, a causa della terribile depressione e della svalutazione. Le conseguenze della sconfitta militare sono pesantissime e minacciano di dissanguare il paese. Nonostante la buona reputazione delle fotocamere e degli obiettivi tedeschi sui mercati internazionali, la situazione del mercato non è delle migliori. Le diverse industrie tedesche si fanno concorrenza tra loro, proponendo modelli di fotocamere che ripetono le tipologie prebelliche e che sono praticamente identiche tra loro. Nessuna delle industrie fotografiche dell’epoca possiede capitali sufficienti da investire nella ricerca tecnica necessaria allo sviluppo di nuovi prodotti. La Fondazione Carl Zeiss al contrario riesce ad essere concorrenziale e a presentare bilanci in  attivo, grazie alla felice combinazione di ricerca, sviluppo e marketing. Guidata dalle felici intuizioni di Abbe, dalla capacita commerciale di Zeiss, che si è creato una notevole reputazione con i microscopi e grazie anche alle scoperte scientifiche di Schott, la società Carl Zeiss è riuscita a prosperare in maniera rapidissima. L’associazione alla Ica della Goerz in conseguenza della morte del fondatore permette alla medesima Ica di disporre di ottiche più economiche e meno complesse di quelle che sono presenti nel catalogo Zeiss. Un destino diverso è quello della società Contessa Nettel. Diretta dal dottor August Nagel la Nettel presenta all’epoca gli stessi problemi economici delle altre industrie fotografiche tedesche. Nel 1920 la Zeiss acquista senza problemi una grossa fetta di capitale azionario della società, lasciando che il dottor Nagel rimanga a capo della propria azienda. Solo in seguito. Quando a Nagel viene rifiutato l’ingresso nella direzione della Fondazione Carl Zeiss, quest’ultimo decide di lasciare la società per mettere la propria esperienza e quel che gli rimane della propria azienda a servizio della multinazionale americana Kodak. La società Contessa Nettel si distingue nel panorama industriale tedesco per una produzione di fotocamere di alta qualità. Verso la fine del 1925 viene assorbita dalla Fondazione Carl Zeiss anche la Ernemann, importante società, costituita nel 1889 molto attiva nella costruzione di fotocamere, otturatori ed obiettivi. Con l’assorbimento della Ernemann la fondazione Zeiss non solo acquisisce un importante stabilimento per la costruzione di fotocamere, ma si assicura i servizi del progettista dell’obiettivo Ernostar, il dottor Ludwig Bertele. Durante la lunga collaborazione con la Fondazione Carl Zeiss il dottor Bertele disegna alcuni tra i più famosi obiettivi costruiti dalla Carl Zeiss stessa, come i Sonnar, i Biotar e i Biogon. Nell’agosto del 1926 viene costituita ufficialmente la società Zeiss Ikon. Il nome IKON deriva dalla parola greca immagine. La politica di acquisizioni continua anche sotto il nuovo marchio. Alla fine degli anni Venti viene creato un apposito management per il settore fotocamere, con la conseguente esclusione di circa duecento modelli, ritenuti obsoleti o doppioni di altri apparecchi in produzione e con una riduzione del catalogo a circa cinquanta modelli di fotocamere. Questa razionalizzazione porta anche alla produzione unificata di molte parti, con un notevole abbassamento dei costi e un aumento della capacità produttiva. Sotto la direzione amministrativa del Dott. Emmanuel Goldberg, un vecchio dirigente della Ica e avvalendosi della direzione tecnica del giovane Dott. Heinz Kuppelbender e per la parte finanziaria del Dott. Simader, la Zeiss Ikon si avvia ad essere la società leader del settore fotografico negli anni Trenta. Nessuna nicchia di mercato viene trascurata dalla Zeiss Ikon, che negli anni Trenta arriva a proporre fotocamere per tutti i formati e per tutte le tasche, unendo ad una costruzione superlativa le caratteristiche ineguagliate delle proprie ottiche. Una volta razionalizzata la produzione delle consociate e dopo aver imposto il marchio Zeiss Ikon alle fotocamere rimaste in catalogo, la Zeiss Ikon comincia a organizzare un nuovo tipo di produzione: fotocamere pieghevoli (folding), a corpo rigido ecc.. Nel catalogo del 1932 sono presenti fotocamere di diversi tipi e formati, ma anche gli obiettivi Frontar, Novar, Dominar, Tessar e Biotessar, oltre ai più luminosi Biotar e Sonnar, oltre agli otturatori a lamelle Derval, Telma, Kio e Compur e agli otturatori a tendina per fotocamere di medio formato. Fra le realizzazioni più ambiziose della Zeiss Ikon vi è quella di una fotocamera in grado di togliere alla società concorrente Leitz il monopolio sul formato 35mm. Il progetto della Contax, una nuova fotocamera a telemetro di formato 35mm di altissima qualità e tale da poter fare concorrenza alla Leica, è fortemente voluto dalla dirigenza della Zeiss Ikon e trova la sua realizzazione grazie alla genialità di Kuppelbender, che riesce a progettare una fotocamera dalle prestazioni superiori a quelle della Leica senza infrangere nessuno dei numerosi brevetti che la proteggono. Il gruppo telemetrico, l’otturatore, il sistema di apertura del dorso, il sistema di trascinamento del film, l’innesto degli obiettivi intercambiabili, sono tutti problemi che vengono risolti grazie a sistemi assolutamente originali, anche se complessi. Kuppelbender è indubbiamente il principale artefice del progetto Contax, come risulta dalle numerose richieste di brevetto, tutte firmate con il suo nome. Invece i vari accessori vengono progettati da una equipe Zeiss costituita appositamente e distaccata esclusivamente per il sistema Contax. Molti degli obiettivi della Contax vengono progettati di sana pianta da Bertele. Avremo modo di ritornare su questo particolare prodotto parlando della Leica. Durante gli anni Trenta la politica di acquisizioni della Fondazione Zeiss continua, anche al di là delle industrie fotografiche, arrivando al controllo diretto o indiretto di parecchie società importanti. Agli albori degli anni Quaranta la Zeiss Ikon produce anche diversi tipi di pellicole pancromatiche in rullo con sensibilità 17 o 21 DIN. Alla produzione delle fotocamere si affianca la produzione dei proiettori, delle cineprese, dei proiettori cinematografici e perfino degli esposimetri. Con il procedere incalzante della Seconda Guerra Mondiale, inizialmente favorevole alla Germania, una parte dell’attività produttiva della Zeiss Ikon viene decisamente dirottata verso la produzione militare. Anche per queste scelte la guerra significa per la Zeiss Ikon l’accantonamento di molti interessanti progetti fotografici. Dopo il 1941, con il nuovo andamento delle operazioni militari, si verifica una grave mancanza di materie prime, con un drastico ridimensionamento della produzione civile, mentre la sede di Jena della Carl Zeiss diventa un importante obiettivo militare, soggetto ad attacchi aerei a partire dal 1943. La definitiva sconfitta militare modifica profondamente la storia della Germania e la stessa storia della Fondazione Carl Zeiss ne viene profondamente influenzata. Ricostruire l’esatta consistenza della produzione prebellica risulta estremamente difficoltoso per la perdita quasi totale degli archivi della Zeiss Ikon, ma anche quelli conservati a Dresda, quasi completamente distrutti nel 1945 quando la sede della società, nel vecchi stabilimento della Ica, viene quasi completamente seppellita sotto le bombe. A causa del massiccio impiego di bombe incendiarie, dell’immensa quantità dei documenti conservati negli archivi Zeiss non rimane praticamente nessuna traccia. In base a ricostruzioni recenti, e grazie al contributo di numerosi collezionisti e ricercatori, è stato possibile stilare una cronologia plausibile dei numeri di serie delle fotocamere Zeiss Ikon del periodo fra le due guerre. L’otto di maggio del 1945, proprio nell’ultimo giorno della guerra, le truppe sovietiche entrano nella città di Dresda, ovvero in ciò che ne è rimasto dopo i feroci bombardamenti, i più massicci di tutto il conflitto, che hanno raso al suolo praticamente tutto il centro urbano. La città di Dresda, che sembrava godere di una tacita immunità dai bombardamenti grazie al su status di città d’arte, al pari di Firenze, e che aveva attratto una gran parte della popolazione civile sfollata da altre città a rischio, viene sottoposta negli ultimi mesi del conflitto a una serie di bombardamenti alternati, messi in atto di giorno e di notte rispettivamente dalle aviazioni americana e inglese. Quando il 13 aprile 1945 le truppe americane entrano in Jena, con loro grande sorpresa scoprono che  le loro previsioni circa gli effetti dei bombardamenti sono errate e le distruzioni arrecate devono essere notevolmente ridimensionate. Gli stabilimenti Carl Zeiss, oggetto di accurati bombardamenti alleati,  in quanto considerati obiettivi primari di produzione bellica, secondo i calcoli americani sarebbero stati distrutti al novanta per cento con una produzione pari a zero. In realtà al momento dell’arrivo delle truppe di occupazione, la Carl Zeiss funziona ancora al sessanta per cento, con una perdita di produttività di circa il trenta per cento. Prima del ritiro, poiché Jena risulta essere nella zona di influenza sovietica, il colonnello Hubert Zemke organizza il trasporto di circa ottanta fra ricercatori e tecnici della Carl Zeiss e di una quarantina di dirigenti delle vetrerie Schott, con le rispettive famiglie, nella zona Ovest. In questo modo un importante nucleo di progettisti e tecnici qualificati viene messo in grado di ricostruire la prestigiosa industria ottica tedesca. I tecnici della Zeiss selezionati da Zemke vengono letteralmente costretti a seguire gli Americani, mentre molti altri dipendenti Zeiss, per orgoglio o per scelta, rifiutano fermamente di trasferirsi all’Ovest e rimangono nelle loro residenze. Come sede di produzione viene scelta la vecchia fabbrica della Contessa Nettel, situata a Stoccarda, miracolosamente rimasta intatta dopo le distruzioni belliche. Per la nuova sede principale della Fondazione Carl Zeiss viene invece scelta la vicina cittadina di Oberkochen. La Fondazione Carl Zeiss rinasce ufficialmente il 23 febbraio del 1949. Per individuare la produzione ottica realizzata all’Ovest viene utilizzato provvisoriamente il marchio Zeiss Opton, un marchio la cui origine non è mai stata chiarita  e che vede la luce il 10 marzo 1947.  Nel luglio 1945 le truppe americane che occupano Jena cedono il posto, in base agli accordi di pace, alle truppe sovietiche. Questi avvenimenti significano per le industrie Zeiss Ikon e Carl Zeiss Jena l’inizio di un nuovo periodo produttivo, caratterizzato da incertezze e ambiguità. Gli stabilimenti Zeiss Ikon di Dresda sono stati praticamente distrutti la sede della ex Ernemann ha subito per fortuna danni minori. Gli stabilimenti di Jena si trovano in condizioni non molto diverse. Le truppe sovietiche, come risarcimento dei danni di guerra stanno svuotando i magazzini e si apprestano a smontare perfino i macchinari relativi alla produzione delle ottiche e soprattutto delle fotocamere Contax, per trasferire la produzione ottica a Krasnogorsk, vicino a Mosca e quella delle fotocamere a Kiev, in Ucraina. La situazione è dominata dalla precarietà, accentuata dalla proclamazione nell’ottobre 1949 della nascita di un nuovo stato tedesco, la DDR , in opposizione alla proclamazione, nel settembre del medesimo anno della Germania Federale, con la quale la divisione si fa sempre più netta. In questa situazione la Zeiss Ikon di Dresda si trova ad un bivio. Mentre le industrie ottiche Carl Zeiss di Jena continuano nella produzione di obiettivi e mantengono buoni rapporti da una parte con la consorella di Stoccarda a dall’altra con i nuovi governanti, la Zeiss Ikon viene posta sotto il controllo statale e trasformata in Veb Zeiss Ikon che nel 1964 diverrà Veb Pentacon. Utilizzando alcune parti già lavorate nel periodo del conflitto e rimettendo in moto le attrezzature superstiti viene avviata una produzione ridotta di fotocamere Contax, che vengono siglate con il marchio Carl Zeiss Jena. Le Contax Jena sono facilmente riconoscibili dalla produzione prebellica perché vengono rifinite semplicemente in cromatura opaca e non satinata, come le fotocamere costruite fino al 1939 e portano la scritta “Carl Zeiss Jena” incisa sulla slitta porta accessori, mentre il modello prebellico porta la scritta “Zeiss Ikon”. La produzione di queste fotocamere inizia nell’ottobre 1945 e prosegue fino ai primi mesi del 1948, quando il trasferimento della linea Contax viene completato. Le Contax verranno prodotte in Ucraina col nome Kiev anche se con notevole diversità di finiture. La rinascita del marchio Carl Zeiss si rende possibile grazie ai massicci investimenti americani e alle agevolazioni offerte dal nuovo governo tedesco. Il processo di ricostituzione della Carl Zeiss attorno alla nuova dirigenza, costituita ancora da Kuppelbender e altri, presenta aspetti tali da suscitare meraviglia. Pur essendo la più danneggiata fra le industrie fotografiche tedesche la Zeiss Ikon presenta la nuova Contax già alla prima Photokina, nel maggio del 1950 e nel giro di un decennio ristabilisce la propria rete commerciale, arrivando ad esportare regolarmente  i propri prodotti in più di 150 paesi. Nello stesso anno 1950 viene presentata, quasi in antitesi alla Contax, la fotocamera Contessa, fornita di ottica fissa Tessar, ma anche di telemetro ed esposimetro. Con l’ingresso nel nuovo decennio la società Zeiss Ikon mette in atto in maniera irreversibile la decisione di eliminare dalla produzione tutte le fotocamere di medio formato, pieghevoli e biottica, per concentrare tutti i propri sforzi sulla produzione di fotocamere 35mm. Questa scelta è comune ad altre industrie, come Voitglaender, mentre Rollei continua a difendere la superiorità del medio formato, almeno per un’altra decina d’anni. La scelta di concentrare tutte le energie produttive sul formato 35mm è giustificata dalla nascita del sistema Contarex e dallo sviluppo del sistema Contaflex, ma non porta alla nascita di nuove fotocamere da 35mm più economiche, la cui produzione viene ridotta fino alla completa eliminazione già a metà del decennio. Quello che invece non cambia è la politica di assorbimento di nuove industrie fotografiche sotto il controllo della Fondazione Carl Zeiss. A metà del decennio la Fondazione arriva a controllare una serie di società diverse, dalle tradizionali produttrici di vetro ottico, di obiettivi e di otturatori, fino all’ultima delle consociate, la ex concorrente Voigtlaender di Braunshweig, ben nota per la produzione ottica e di fotocamere, di cui la Fondazione Carl Zeiss acquista il pacchetto azionario nel 1956 dalla Shering AG di Berlino che lo detiene già dal 1924. A fronte di una situazione complessivamente favorevole, si registrano tuttavia dei notevoli sbilanci economici proprio nel settore delle fotocamere. Fra tutte le aziende controllate direttamente o indirettamente dalla Fondazione Carl Zeiss, la società Zeiss Ikon è quella che registra le perdite finanziarie di maggiore entità ed anche la società che registra i passivi più costanti nel tempo. Di fronte a costi produttivi enormi la società Zeiss Ikon non riesce da anni ad ottenere riscontri positivi sui mercati internazionali. La produzione fotografica offerta dalla Zeiss Ikon si compone di diversi sistemi fotografici da 35mm, incompatibili fra di loro e che spesso vengono presentati contemporaneamente e in diretta concorrenza sugli stessi mercati. Questa anomalia è presente in maniera costante, ma si accentua negli anni Cinquanta e Sessanta. L’eccessivo proliferare di fotocamere e di sistemi ottici è una costante che segue la storia della Zeiss Ikon come un destino ineluttabile. Al momento della nascita della Zeiss Ikon, nel 1926, lo stesso problema aveva richiesto un drammatico quanto immediato intervento, con l’eliminazione di decine di modelli di fotocamere e di obiettivi dalla produzione. Lo stesso fenomeno si ripete negli anni Cinquanta e Sessanta come in una nemesi storica. Dall’incredibile affermazione commerciale dei primi anni Cinquanta al crollo verticale degli ultimi anni Sessanta la Zeiss Ikon colleziona tutta una serie di errori di strategia, che solo in parte sono imputabili all’inarrestabile concorrenza delle industrie fotografiche giapponesi, dinamiche e competitive, ma qualitativamente meno affermate. Al di là delle considerazioni di strategia commerciale, il motivo determinante del fallimento della Zeiss Ikon rimane nel fatto che la società, mentre mantiene in attivo tutte queste diverse linee produttive, non dispone più dei capitali da investire nell’ammodernamento degli impianti. Gli stessi impianti produttivi, modernissimi negli anni Cinquanta, non lo sono più a metà degli anni Sessanta. Il processo produttivo della Zeiss Ikon si rivela lento ed antieconomico e se a ciò si aggiunge la differenza di costi tra manodopera giapponese e quella tedesca, l’abisso si rivela incolmabile. A posteriori si rivela un errore anche l’eccessivo accanimento della Zeiss Ikon nella costruzione di fotocamere reflex monobiettivo con otturatore centrale, come le pur pregevoli Contaflex. Questa scelta è sicuramente motivata dal fatto che le società Gauthier e Deckel, i principali produttori tedeschi di otturatori a lamelle, sono all’epoca controllate dalla Fondazione Zeiss. Del resto alla nascita delle Contaflex nei primi anni Cinquanta, la superiorità dell’otturatore a tendina non è stata ancora sufficientemente dimostrata, mentre l’affidabilità dell’otturatore centrale si è dimostrata preziosa, specialmente con l’uso del flash elettronico sincronizzato. Il successo delle Nikon e delle Leicaflex, delle Canon e delle stesse Contarex non scalfiscono il muro di certezze dei sostenitori degli otturatori a lamelle. La superiorità definitiva degli otturatori a tendina si afferma negli anni Settanta con il controllo elettronico delle velocità, una novità che viene presentata, per ironia della sorte, proprio da una fotocamera firmata Zeiss Ikon, la notissima Contarex SE.  La mancata razionalizzazione di un’eccessiva gamma nell’offerta di fotocamere ed obiettivi, le infinite varianti di combinazioni fra obiettivi e otturatori, un  mercato particolarmente feroce e competitivo, gli investimenti enormi ed economicamente improduttivi per ogni nuova linea di fotocamere, finiscono con il rendere disastrosi i bilanci della Zeiss Ikon già negli ultimi anni Sessanta. La decisione del gruppo direttivo della Fondazione Carl Zeiss di chiudere la Zeiss Ikon diventa quindi semplicemente inevitabile. Il sistema Contarex, l’ultimo dei capisaldi della Zeiss Ikon, viene studiato e sviluppato in maniera testarda e miope, totalmente svincolata dalle reali condizioni del mercato e senza considerare la nicchia di mercato, relativamente piccola a cui le Contarex si rivolgono. Senza alcun riguardo per gli astronomici costi produttivi viene creato un sistema fotografico assoluto completato da obiettivi che sicuramente rappresentano l’ultimo esempio di prodotto industriale costruito ancora con sistemi artigianali. Per l’ultimo modello messo in produzione la Contarex SE, le componenti elettroniche vengono sviluppate interamente in casa Zeiss anziché essere appaltate a ditte specializzate. Molte energie preziose ed indispensabili, sicuramente utilizzabili in maniera diversa, vengono così ulteriormente sprecate. Immediatamente prima dell’annuncio della chiusura del reparto fotocamere, alla Photokina del 1970, la Zeiss Ikon presenta alcune interessanti fotocamere, una reflex e una compatta 35mm la Zeiss Ikon SL 706 e la Contessa S310 che nel 1972, per pochi mesi, viene messa in produzione in versione modificata con l’aggiunta di un piccolo telemetro e viene battezzata con la sigla S312. Nonostante i generosi tentativi, decisamente tardivi, di rinnovare la propria immagine sui mercati e di ringiovanire la propria produzione, la Zeiss Ikon non riesce ad evitare la capitolazione. Per poter continuare a vendere la produzione di fotocamere giacenti in magazzino la Fondazione Carl Zeiss crea nel 1972 una nuova società commerciale, denominata Carl Zeiss Contarex Vertrieb e destinata alla gestione delle rimanenze. Circa trecento corpi Contarex vengono marchiati con il solo nome Carl Zeiss, diventando delle autentiche rarità collezionistiche. La nuova società Carl Zeiss Contarex Vertrieb conclude la propria attività nel 1975.

Gli artefici del mito Leica 


Ernst Leitz (1843-1920), figlio di un insegnante, era un ingegnere ed un progettista di talento con esperienza. Il suo apprendistato si era svolto presso fabbriche di strumenti di precisione e laboratori di ottica nel sud della Germania, in Svizzera, in Francia. Ad Ernst Leitz, che godeva anche di una raccomandazione e della stima del suo precedente datore di lavoro Matthaus Hypp, celebre fabbricante svizzero di orologi, fu subito offerto un posto all’Optisches Institut fondato da Carl Kellner. Immediatamente dopo il suo arrivo a Wetzlar sede dell’Optisches Institut, nel 1864, Leitz si cimentò nel difficile e delicato compito di ridurre le tolleranze di produzione nei microscopi. Questo meticoloso impegno a favore della precisione, così importante nella progettazione e nella fabbricazione di strumenti scientifici, fu ricompensato dall’offerta di una partecipazione azionaria nella ditta, già l’anno successivo alla sua assunzione da Friedrich Bethle (1828-1869) che, assistente di Kellner ne sposò la vedova. Alla morte di Bethle Leitz divenne l’unico proprietario. La ditta Leitz fu fondata nel 1869 da Ernst Leitz  con il nome di Optisches Institut von Ernst Leitz (Istituto Ottico di Ernst Leitz). Inizialmente si occupò esclusivamente della fabbricazione di microscopi, che gli scienziati di tutto il mondo stavano cominciando ad usare per le ricerche sui microbi. Le attività dell’Istituto divennero sempre più complesse e diversificate, in relazione alla maggiore varietà di apparati scientifici prodotti. La seconda metà del secolo, in particolare, vide un considerevole incremento nella fabbricazione e vendita di attrezzature per la fotografia, che comparvero a listino per la prima volta nel 1885 con l’introduzione di una camera per microfotografia orizzontale, di grande formato. La costruzione artigianale fu abbandonata a favore di una più rigorosa progettazione. A questo scopo fu assunto anche un progettista come Carl Weber. L’interesse di Leitz per la scienza e la tecnologia lo portò all’abitudine di offrire, come riconoscimenti celebrativi per istituzioni o singoli ricercatori che si fossero particolarmente distinti, microscopi dal numero di matricola particolarmente significativo. (es. il n. 50.000 al Sanatorio per la Tubercolosi, Davos nel 1899, il n. 100.000 al Prof. Robert Koch nel 1907 ecc.). Con il trascorrere degli anni Ernst Leitz fu affiancato nella sua impresa dai due figli Ludwig (1867-1899) ed Ernst Leitz II (1871-1956). Fu merito loro se si attuò una diversificazione dei prodotti e Ludwig in particolare fece molto per sviluppare a Wetzlar la microfotografia. Nel 1911 Ernst Leitz II assunse un giovane ingegnere della Zeiss, Oscar Barnack. Barnack era nato a Brandeburgo nei pressi di Berlino nel 1879 ed a Berlino aveva fatto il suo apprendistato prima di essere assunto dalla Zeiss. Quando Leitz gli offrì un posto di lavoro Barnack inizialmente rifiutò, dicendo che pensava che non sarebbe stato nell’interesse della ditta assumere un giovane che avrebbe dovuto familiarizzare con una varietà di nuovi compiti e la cui scarsa salute (era affetto da asma) avrebbe comportato di necessità uno o due mesi di assenza all’anno. Considerando lo stato di salute di Barnack, Ernst Leitz II (allora al vertice dell’azienda) inizialmente gli offrì una settimana di prova. Subito dopo l’incarico fu però confermato come permanente. Fin dall’inizio, i rapporti tra Barnack ed Ernst Leitz II furono eccellenti. L’ingegner Barnack aveva un carattere tranquillo e modesto molto simile a quello di Leitz. Fu Leitz a trovare la casa per Barnack, sua moglie Emma, sua figlia Hanna e suo figlio Conrad, al numero 22 di Bruhldtrasse, a Wetzlar. La casa era in una posizione ben protetta dai freddi venti invernali del nord della Germania, per quanto alla fine della sua vita proprio a questi Barnack dovette soccombere. La carriera di Barnack fu rapida: entro un anno divenne capo del reparto di ricerca e sviluppo per i microscopi, all’Istituto. Tenendo conto del peso che avrebbe avuto Barnack in futuro, sia rispetto allo sviluppo delle idee di Leitz sia nei riguardi dell’evoluzione generale della fotografia, vanno considerati con interesse i suoi primi esperimenti con una fotocamera. A proposito della convinzione di Barnack di sviluppare il progetto per un nuovo tipo di macchina fotografica il figlio Conrad scrive: Posseggo ancora la fotocamera Nettel 13x18 a lastre con la quale mio padre scattò le sue fotografie dal 1903 al 1912; proprio questo apparecchio, con il suo considerevole peso, indusse mio padre a cominciare a pensare di costruire qualcosa di più piccolo. La vecchia Nettel è solo un corpo, senza obiettivo. Comunque è davvero un esemplare unico di Nettel. In origine era una 9x18 stereo Nettel, ma poi mio padre la trasformò in una 9x12, modificando la piastra portaobiettivi. Poi applicò una specie di dorso adattatore piramidale…, modificò il piatto della piastra portaottica per migliorare la trasmissione della luce e usò lastre 13x18 con la procedura che poi descrisse nel volume How the Leica began, provando ad utilizzare ottiche di più corta focale e ad impressionare si di una medesima lastra numerosi scatti differenti. L’esperimento non ebbe successo, nondimeno egli poteva alternare fotogrammi 13x18 o 9x12 o stereo e ciò era quanto al momento gli interessava. Non credo che all’epoca esistesse una qualsiasi altra realizzazione similare. Conrad Barnack allude qui ad uno dei motivi per cui il padre fu riconosciuto come il pioniere di un nuovo tipo di fotocamera: la sua fragile costituzione, in quegli ultimi giorni della sua vita, rendeva particolarmente penoso il trasporto delle pesanti lastre fotografiche. Per questo Barnack progettò una fotocamera che potesse scattare numerose immagini di minore formato sulla stessa lastra. L’idea non era, comunque nuova. Il sistema usato da Barnack era molto simile a quello adottato dai fotografi che scattavano le cosiddette cartes de visite fotografiche. La differenza era nel fatto che questi ultimi utilizzavano apparecchi con più obiettivi per produrre diverse immagini, la soluzione di Barnack andava nel senso di produrre più fotogrammi con uno stesso obiettivo. Sfortunatamente la notevole grana che caratterizzava le lastre di un tempo portava a negativi dalla qualità scadente. All’epoca comunque, non fu tanto la microfotografia ad attirare l’attenzione di Barnack sullo sviluppo della fotografia e delle macchine fotografiche, quanto piuttosto la cinematografia. Fu proprio disegnando e progettando una cinepresa la cui struttura era quasi completamente in metallo (allora gli apparecchi cinematografici erano ingombranti e costruiti in gran parte in legno) e considerata anche la non costante qualità della pellicola allora disponibile che necessitava di un test esposimetrico prima di ogni ripresa cinematografica, che convinse Barnack a disegnare uno strumento compatto, tascabile, che accettasse la pellicola cinematografica, con il quale fosse agevole eseguire una serie di esposizioni a diverse aperture di diaframma. Fu in pratica la necessità di saggiare un nuovo tipo di esposimetro che portò Barnack a rispolverare la vecchia idea di costruire una macchina fotografica destinata ad un piccolo formato di negativo. Comunque, quando egli inizialmente disegnò il suo esposimetro, la realizzazione di stampe tratte da negativi-test di tipo cinematografico, di 18x24mm, era troppo piccolo per fornire accettabili esposizioni di prova e naturalmente tanto meno stampe-test soddisfacenti. La conseguente decisione di raddoppiare il formato, portandolo a 24x36mm, lo condusse a disegnare quella che poi divenne nota come fotocamera UR. Il modello UR, la prima fotocamera 35mm di Oscar Barnack, venne costruito intorno al 1912-1913, contemporaneamente alla sua cinepresa tutta in metallo. Lo scafo ricalcava le tendenze della maggior parte delle fotocamere per pellicola in rullo dell’epoca, come ad esempio la Vest-Pocket Kodak. Barnack ovviamente disegnò la sua fotocamera come apparecchio dal fotogramma doppio rispetto al consueto fotogramma cinematografico (che era di 18x24mm). Come otturatore Barnack adottò un sistema a tendina su rulli, accoppiato al meccanismo di avanzamento della pellicola. E’ ancora interessante notare che il formato originale ideato da Barnack fu di 24x38mm, corrispondente alla lunghezza di otto perforazioni della pellicola, senza spazio interfotogramma tra un’immagine e la successiva. In seguito, per creare un minimo di margine tra un negativo e quello seguente, Barnack ridusse la lunghezza del formato a 36mm e fu così che nacque il leggendario formato 24x36mm. La UR è senza dubbio l’antesignana di tutti i modelli Leica. E’ certamente difficile dire se la UR sia stata ideata pensandola più in ruolo di fotocamera piuttosto che di esposimetro. E’ comunque certo che Ernst Leitz II fu molto interessato alla fotocamera UR e, il 12 giugno 1914, fece richiesta di brevetto. Barnack avrebbe voluto che la sua macchina fosse brevettata con il nome di Lilliput, ma questa denominazione era già in uso per un modello costruito da Ernemann. La richiesta di Leitz fu rifiutata anche perché alcune caratteristiche che desiderava brevettare erano già state introdotte dalla Zeiss nella fotocamera Palmos nel 1904. Leitz dovette accontentarsi, per il suo modello UR, della dicitura DRGM (brevetto in attesa di registrazione). In seguito, quando il primo modello di fotocamera firmata Leica apparve sul mercato (1925), fu brevettato con successo dalla Leitz. ra lo sviluppo del prototipo UR di Barnack (numero 1) e la comparsa del primo modello Leica 35mm prodotto in serie nel 1925, si sa che sono stati realizzati almeno altri due modelli sperimentali. Il numero 2 è andato perso e di esso non si ha nemmeno una fotografia, nonostante siano state annotate le sue caratteristiche di base. Il modello numero 3 fu sviluppato tra il 1918 ed il 1920; tale modello è conservato nel museo della casa madre assieme al  numero 1. Un ulteriore passo avanti fu poi compiuto nel 1923-1924, quando venne decisa l’introduzione e la commercializzazione delle fotocamere Leica della serie 0. Il modello UR numero 3, con il suo otturatore a fessura variabile per diversi tempi di esposizione, fu certamente il riferimento cui si ispirarono le macchine della serie 0. Queste ricalcavano lo stesso progetto, salvo piccole differenze. Mentre le UR e comunque la UR n. 3, avevano un trascinamento pellicola da rocchetto a rocchetto, le macchine serie 0 furono dotate di un sistema da caricatore a rocchetto. Questo particolare significa che la pellicola poteva essere caricata e scaricata alla luce. A questo punto deve essere presentato un nuovo personaggio. Il compito di progettare le ottiche fu infatti affidato a Max Berek. Così come Barnack raggiunse notevoli traguardi facendo evolvere il progetto Leica sotto l’aspetto ingegneristico, Berek sviluppò la parte ottica. In effetti il lavoro di Berek fu davvero complementare a quello di Barnack, sia sotto l’aspetto progettuale sia per favorire quello di successo commerciale della Leica. Berek era nato nel 1886 a Ratisbona in Slesia. Nel 1911 gli fu riconosciuto il dottorato dall’Istituto di Mineralogia di Berlino, per la sua tesi Kristalloptik (obiettivi in vetro). L’anno successivo Berek fu assunto dalla Leitz, come assistente scientifico. Fu il principale progettista della maggior parte delle ottiche per le fotocamere create da Barnack. Il primo obiettivo fu quello appositamente disegnato per coprire il formato 24x36mm del modello UR; di questo fu brevettata nel 1920 una versione migliorata, a quattro lenti, che si ritiene sia stata la base per il leggendario Elmar f/3.5 da 5cm. Berek disegnò le ottiche per la serie 0 ed in seguito tutta una gamma di famosi obiettivi per vari modelli Leica, fino alla sua morte, avvenuta a Friburgo, nel 1949. Fu Ernst Leitz II (il cui padre era morto nel 1920) che decise di dare seguito alla fabbricazione della serie 0 (modelli del 1923-1924) avviando la produzione di una nuova fotocamera 35mm costruita in serie. Fu una decisione coraggiosa per diverse ragioni: la Leitz non era rinomata principalmente come fabbricante di fotocamere, come invece era la Zeiss (che avrebbe a suo tempo presentato la fotocamera Contax che fu la maggior rivale della Leica); inoltre le stampe ottenute con i prototipi Leica, anche con quelli della serie 0, non proponevano una qualità assimilabile a quella che si otteneva con più semplici e più economici apparecchi (come il modello Kodak Vest Pocket, che beneficiava di un negativo considerevolmente più grande). Un altro punto critico era dato dalla pellicola 35mm, che non soltanto era più difficile da trovare, ma richiedeva considerevoli acrobazie nel procedimento di caricamento (la Leica veniva caricata dal fondello della macchina, come ancora oggi e ciò richiedeva un’attenzione manuale più accurata che nelle altre fotocamere). Infine la Leica non era, in pratica, nemmeno la prima macchina 35mm, ma forse, effettivamente, il successo della Leica fu principalmente dovuto ai fattori addotti da Barnack: a differenza di altri apparecchi, la Leica era piccola e per di più facile da maneggiare. Dopo che Leitz prese la decisione di avviare la produzione in serie, ecco che nel 1924 iniziò la fabbricazione del modello I. Nell’anno successivo la macchina fu pronta per essere lanciata sul mercato. Il primo apparecchio che lasciò la fabbrica era contraddistinto con il solo nome del fabbricante. Come abbiamo visto, il nome Lilliput che Barnack avrebbe voluto non poteva essere impiegato perché era già stato brevettato da Ernemann. Leitz stesso propose il nome di Barnack Camera, ma Barnack era poco conosciuto al di fuori di Wetzlar ed il suo nome non era facilmente pronunciabile in diverse lingue. Finalmente fu proposta una combinazione delle prime lettere di Leitz e camera, nacque così il nome Leica. Il modello Leica I che finalmente apparve sul mercato era un apparecchio quasi senza difetti, il risultato di diversi anni di ricerca. Per quanto avesse richiesto a Barnack più di tredici anni di studi per perfezionare l’otturatore sul piano focale (il cuore della Leica), il progetto e le principali caratteristiche della macchina non erano stati fondalmente cambiati passando dai prototipi UR alla serie 0, e più tardi al modello I. Come la UR e le sue discendenti, la nuova Leica si basava sull’uso di una pellicola cinematografica e su ottiche da cinematografia. La Leica I fu presentata nel 1925 alla Fiera di Primavera di Lipsia. Fu recensita entusiasticamente dalla stampa fotografica di allora, che però alla fine si orientò sulla dubitativa conclusione che essa fosse un ennesimo tentativo, tra i tanti di breve durata, di produrre una macchina di piccolo formato. Nonostante ciò, alla fine del 1925 era stato già venduto un migliaio di apparecchi Leica, un risultato notevole per un nuovo modello, anche se questa quantità era considerevolmente ridotta se confrontata con la produzione della Ica, pari a circa sessantamila macchine all’anno. Alla Fiera di Primavera di Lipsia del 1930, fu introdotto un nuovo modello con possibilità di intercambiare l’ottica. Inizialmente furono disponibili soltanto due obiettivi supplementari , il 35mm ed il 135mm Elmar, ma più avanti la gamma fu allargata. L’importanza di queste alternative non standard deve essere presa in attenta considerazione quando si valuta la fenomenale popolarità che arrise alla Leica: la telefotografia con una macchina fotografica tenuta in mano era diventata possibile. Per quanto i teleobiettivi esistessero fino dal 1880, la loro limitata apertura massima (luminosità) aveva sempre obbligato all’impiego di un treppiede. Per di più, le ottiche di focale tele avevano sempre mostrato una scarsa definizione ai bordi. L’Elmar 135mm era invece un obiettivo lungo fuoco, progettato per coprire un angolo di 60°, che era indispensabile per fotocamere a lastre 9x12cmm. Poiché invece l’ottica veniva usata per coprire una porzione di negativo pari a 2.4x3.6cm, la definizione agli angoli era eccellente. Analogamente, la possibilità di disporre del 35mm Elmar aprì nuove opportunità di ripresa nel campo della fotografia di paesaggio, va notato infatti che fino alla comparsa dell’Elmar 35mm gli obiettivi tendevano ad essere di limitata apertura massima, dunque inadatti alla fotografia a mano libera. La leica I fu presa a modello in tutti i successivi progetti per fotocamere  e l’ottica standard Elmar 50mm ebbe un peso rilevante e seppe imporsi come pietra di paragone su tutti gli altri obiettivi. L’introduzione di una Leica, con mirino a telemetro accoppiato, il modello II del 1932, rese più facile e popolare l’impiego di ottiche non standard (in particolare i teleobiettivi). Mentre il modello Leica I equipaggiato con il telemetro separato (posto sulla slitta porta accessori) era difficile da usare, l’impiego della versione II era senz’altro alla portata dei sempre più numerosi fotoamatori evoluti, un pubblico già consistente nel 1930. A partire dal 1932 le pellicole per di più furono disponibili in caricatori preconfezionati e si superò così anche la difficoltà di una laboriosa e non facile operazione di caricamento al buio delle cassette portapellicola (i caricatori fino ad allora usati). Perutz fu il primo produttore di pellicola a proporre il film preconfezionato in caricatori. All’inizio la sensibilità delle pellicole era molto bassa, corrispondente a circa 4 ASA più tardi fu incrementata fino a 32 ASA. Dal 1930 anche le altre case produttrici introdussero le loro pellicole Leica. Inoltre Perutz, che era il leader in questo campo, sfidò ulteriormente i suoi concorrenti, presentando pellicole con impressa la numerazione dei singoli fotogrammi. Da allora in poi, tutti i fabbricanti di film, nel mondo, offrirono un’ampia gamma di pellicole, di diverse sensibilità. Numerosi altri obiettivi ed accessori, seguirono la presentazione del modello II nel 1932 e consolidarono la posizione guida che la Leica aveva ormai assunto nel mercato delle macchine di piccolo formato. L’idea di Barnack di una costruzione modulare e razionale dunque aveva avuto successo, anche di vendita. I possessori di apparecchi Leica non temevano l’obsolescenza dei loro strumenti ed i miglioramenti via via apportati nei nuovi modelli potevano sempre essere trasferiti su quelli vecchi. Una Leica I poteva essere trasformata in una Leica II (pur conservando la matricola originale). Gli apparecchi Leica ed i loro accessori erano costosi, ma erano fin dove possibile progettati per essere polifunzionali. Ad esempio un obiettivo Elmar f/3.5-5cm poteva essere usato come ottica da ripresa per una fotocamera Leica, come ottica da riproduzione per un dispositivo repro, come ottica per ingranditore o come ottica da proiezione. Questa filosofia di progettazione polifunzionale fu in notevole misura responsabile della crescita e della popolarità del sistema Leica. Una Leica non invecchiava e molti dei pezzi del suo corredo potevano essere usati per diversi scopi. Quando nel 1936 morì Oscar Barnack, il padre della Leica, ci sarebbe stata da aspettarsi una battuta d’arresto delle nuove progettazioni ed innovazioni tecniche. Ma non fu così. Un giovane e brillante ingegnere, Wilhelm Albert, che era stato assunto alla Leitz nel 1928 e che aveva lavorato da tempo nell’ombra, dopo la morte di Barnack scese in campo con una serie di nuove invenzioni, Il primo accessorio che disegnò fu il complesso obiettivo Stereo Elmar. E poi, va detto che, fino al suo pensionamento nel 1960. forse il principale impegno di Albert fu lo sviluppo della montatura a vite Leica. La sua influenza sull’evoluzione della Leica non deve essere sottostimata: così come Barnack iniziò, Albert seppe continuare. Non c’è dubbio che il maggiore e più temibile rivale della Leica sia stato l’apparecchio Contax, prodotto dalla Zeiss Ikon. Il crescente successo della Leica, fino dalla sua presentazione nel 1925, aveva reso consapevole questa ditta del mercato potenziale che esisteva per questo genere di fotocamere; alla Fiera di Primavera di Lipsia del 1932 la Contax fu svelata al pubblico. Il responsabile della sua progettazione fu il Dr. Ing. Heinz Kuppenbender.  Il design, in senso stilistico, fu opera del Prof. Emmanuel Goldberg. L’otturatore della Contax era una progetto innovatore, a scorrimento verticale e realizzato interamente in metallo, ma si dimostrò non affidabile nel funzionamento. La gamma di obiettivi utilizzabili, comunque fu ampiamente superiore a quella della Leica. Il Sonnar f/1.5 da 5cm, disponibile a partire dal 1932, si avviò ad essere il più significativo obiettivo del decennio. Era stato disegnato da Ludwig Bertele, che già aveva al suo attivo, un altro capolavoro: l’obiettivo Ernostar f/1.8 da 100mm adottato per la famosa fotocamera Ermanox, fabbricata da Ernemann. Un altro superbo obiettivo realizzato per la Contax fu il Sonnar f/2.8-180mm (1936); questo fu innovatore nel progetto e si dovette attendere ben oltre la Seconda Guerra Mondiale perché Leitz realizzasse una concreta alternativa a questa ottica. Per quanto la Contax fosse una bella fotocamera sotto il profilo della realizzazione ingegneristica, essa non raggiunse mai la popolarità della Leica. La Leica fu la prima macchina a sposare il promettente principio piccoli negativi – grandi stampe, seppe ispirare fiducia al pubblico ed incorporare innovazioni tecniche valide. I problemi della Contax furono in parte dovuti ad un certo gusto per la meccanica sofisticata, che imperava nelle fotocamere Zeiss Ikon. Uno dei difetti tipici, per cui la macchina perse il confronto, fu la fragilità del suo otturatore. Non si può però negare che, sotto il profilo dell’ottica, ogni fotocamera Leica contenesse un po’ dell’inventiva Zeiss: l’obiettivo Elmar era una variante dell’Elmax che a sua volta derivava dallo Zeiss Tessar, il cui progetto discendeva dall’Unar della stessa casa. Fu lo scadere del brevetto Tessar, nel 1927, che rese possibile la costruzione dell’Elmar. ’indubitabile successo mondiale della Leica fu dovuto a così tante ragioni che non è possibile qui elencarle tutte. Una è facilmente individuabile (la facilità con la quale l’apparecchio poteva essere maneggiato) e di essa abbiamo già detto. A proposito invece dei parametri strettamente tecnici, probabilmente il più significativo fu quello rappresentato dall’otturatore, la cui dolcezza di funzionamento ed affidabilità erano conseguenze di uno sviluppo equilibrato e di una notevole esperienza di progettazione. Altre ragioni sono parimenti note: l’otturatore Leica era accoppiato all’avanzamento della pellicola e questa era una garanzia contro il diffuso inconveniente delle doppie esposizioni accidentali. L’intercambiabilità delle ottiche e la presenza di un telemetro accoppiato attiravano giustamente i fotografi. L’ampia disponibilità di ottiche ed accessori pose infatti la Leica in un posto a sè stante sul mercato, almeno fino all’avvento della Contax. In più, tutti i particolari erano lavorati con elevati livelli di precisione. Barnack era noto in fabbrica come l’uomo che inseguiva il centesimo di millimetro e nessun pezzo lasciava Wetzlar senza prima essere stato testato con rigore. La maggior parte del costo di una Leica, proprio per questo motivo, doveva essere appunto attribuito ai controlli, non alla fabbricazione. Venivano usati soltanto materiali di primissima scelta e anche all’assemblaggio delle fotocamere veniva applicata l’estrema cura e precisione che gli operai specializzati riservavano agli strumenti scientifici. Gli operai dovevano sottostare ad un lungo periodo di apprendistato prima di essere impiegati sulla linea del montaggio in serie. ’avvento della Leica aprì nuovi orizzonti alla fotografia. Prima dell’arrivo della Leica non avevano potuto svilupparsi le branche della fotografia sportiva con teleobiettivi e in generale la fotografia d’azione eseguita con la macchina in mano. Il fotoreportage poi, fu probabilmente il più importante settore in cui la Leica fu usata e maggiormente acclamata. Tuttora la Leica è considerata come un utensile eccezionale dai reporter di tutto il mondo.  Fu lo spirito che aleggiava nella fabbrica Leitz – fatto di cooperazione, stimolazione incrociata di idee, capacità di sviluppare praticamente concetti che rispondessero ad esigenze pratiche – che veicolò lo sviluppo del sistema Leica. Era lo spirito, sostenuto da Ernst Leitz I, che mise in grado Oscar Barnack di sviluppare ciò che era nato come un suo divertimento personale, così da trasformare un hobby in una grande ricerca tecnologica. Prima della seconda Guerra Mondiale, Leitz fu l’indiscusso leader in ogni campo della fotografia 35mm. Per quanto la Leica non sia stata la prima macchina fotografica 35mm fu certo la prima con telemetro accoppiato ed ottica intercambiabile (seguita alla distanza di soli due mesi dalla Contax) e la prima con un obiettivo stereoscopico. Sotto una visione allargata del mondo fotografico, si può dire che tutte le fotocamere di piccolo formato incorporino una caratteristica Leica, non fosse altro per la presenza del caricatore portapellicola, per il numero (36) delle pose eseguibili e per il sistema di riavvolgimento film a manovellina pieghevole. Dopo 30 anni di continui, incontrastati successi, la mitica Leica a vite di Oscar Barnack cede il passo ad una nuova generazione di apparecchi, rivoluzionari nel sistema, caratterizzata da avanzatissime innovazioni tecniche, che conquista consenso in tutto il mondo fin dalla prima apparizione. Capostipite di questa nuova generazione è la Leica M3. Questo modello nasce nel 1954, ma nel suo lungo, fortunato cammino, subisce una lunga serie di modifiche, aggiunte e varianti da renderne opportuna la classificazione in tre versioni distinte. Anche la produzione della M3, così come era avvenuto per la Leica a vite, è stata preceduta da un certo numero di prototipi, circa una sessantina, prima che fosse varato il modello definitivo. Questi prototipi, pur presentando tutti una struttura essenziale perfettamente simile a quella che caratterizzerà poi la M3 nella sua versione definitiva, si differenziano l’uno dall’altro per piccole varianti ed accorgimenti costruttivi. Molto pochi sono oggi gli esemplari superstiti di questi prototipi e pertanto, sono molto ambiti dai collezionisti. Seguirono la M3, dapprima la M2 che riscosse un grandissimo successo tra i professionisti perché oltre che essere più economica (20% in meno), il mirino era regolato per le focali da 35, 50 e 90mm le più adatte al reportage, poi la M1 particolarmente adatta per la fotografia scientifica e tecnica e la M4 con l’ampliata serie dei riquadri per le focali dal 35 al 135mm ed il nuovo sistema di caricamento della pellicola più rapido. Con la M5 la Leica compie un altro considerevole passo in avanti. Sono infatti, davvero notevoli le innovazioni tecniche che vengono presentate con questo modello. Le istruzioni che accompagnano la M5 ne esaltano, così, le peculiarità: La prima macchina fotografica con mirino a telemetro ed esposimetro a lettura attraverso l’obiettivo. Ciò significa non solo precisa messa afuoco, ma anche misura del tempo di esposizione in tutte le condizioni di luce, di giorno e di notte. Per la prima volta, oltre alle due tradizionali prese per la sincronizzazione poste sul retro dell’apparecchi, la slitta porta accessori viene dotata di contatto caldo. Per la prima volta, la ma novellina per il riavvolgimento della pellicola viene alloggiata nel fondello dell’apparecchio. Ciò nonostante la M5, più spigolosa, più grossa e più pesante della M4, non riscuote il successo sperato. Non è gradita specialmente ai professionisti che continuano a far cadere la loro preferenza sulla M4 che la Leitz mantiene in produzione contemporaneamente alla M5 e che continuerà a produrre negli anni successivi, con piccole varianti, nelle nuove edizioni M4-2 ed m4-P. Infine fu inserito l’esposimetro senza variare l’aspetto della M4 e nacque così la M6 dalla quale, a sua volta, con l’introduzione dell’automatismo di esposizione nacque l’attuale M7. I tempi attuali fanno sì che la Leica non possa competere con le altre produzioni di apparecchi fotografici per quanto riguarda i costi, così la Leitz compete con la qualità della produzione e con la costruzione di apparecchi commemorativi molto ricercati dai collezionisti.   Nel cuore degli appassionati la Leica rimane, non c’è dubbio, la più bella fotocamera mai prodotta.

La Ihagee

La ditta Ihagee è universalmente conosciuta nel mondo della fotografia quasi esclusivamente grazie al nome di una fotocamera che ha fatto storia e il cui disegno, la cui concezione e i cui principi si sono tramandati nel tempo, quasi immutati,  fino ai primi anni settanta. Stiamo parlando, ovviamente della celeberrima Exakta. Ma la storia e la produzione del marchio Ihagee non si identificano esclusivamente con questo fortunato modello. Infatti esse sono indissolubilmente legate alla storia del fondatore della famosa ditta tedesca e al luogo in cui questa nacque e si sviluppò, una fucina di tecnologia fotografica che diede vita a tutta una serie di marchi che evocano ancor oggi sentimenti di ammirazione e di nostalgia: Dresda. La ditta Ihagee (dall'abbreviazione tedesca della dicitura Industrie und HandelsGeselleschaft - I H G -) venne fondata da un olandese di nome Johan Steenbergen nato a Meppel il 7 dicembre del 1886. Suo padre, Jan, era un commerciante di tessuti  e sembra che il giovane Johan avrebbe dovuto seguire le sue orme. Fin da ragazzo dimostrò una certa attitudine al commercio ereditata, sembra, dalla madre Sophie Brummer. Si ricorda addirittura un aneddoto secondo il quale da ragazzo comprò all’asta una scatola di pennarelli e li rivendette, guadagnandoci, a parenti e amici. Durante le scuole superiori cominciò ad interessarsi al mondo dei prodotti fotografici in genere in cui aveva cominciato a commerciare. Dopo la morte del padre comprese che la sua strada non era certo quella del commercio di tessuti e si risolse ad abbandonare Meppel per trasferirsi in Germania. Prima che partisse per Dresda aveva già disegnato il suo logo: una luna calante con un sole nascente (il logo utilizzato per tanti anni dalla Ihagee). Il giovane Johan si diresse a Dresda, una cittadina dove era già fiorente un'industria meccanica di precisione e dove operavano già ditte dal nome altisonante come per esempio la Balda, la Huttig, la Zeh, la Wünsche ma soprattutto la Ernemann. E fu presso quest'ultima ditta  che Stenbergen trovò impiego in qualità di apprendista. Col tempo comprese che quello era il centro della fotografia dell'epoca e che proprio in quella città avrebbe dovuto continuare la sua opera. Tra l'altro l’importanza di Dresda fin da quel tempo è testimoniata dall’esistenza di una grande esposizione della fotografia che si teneva in quella città fin dal 1908. Nell’aprile del 1912 Steenbergen riuscì a coronare il sogno di impiantare nella città della fotografia una ditta tutta sua. Fu così che fondò la Industrie und Handelsgesellschaft Kamerafabrik in Marcolinistrasse al nr. 8. All’inizio la ditta si proponeva la commercializzazione di materiale fotografico in genere, tanto che trattava la vendita di accessori per la fotografia, piccole attrezzature e materiale sensibile, pur senza disdegnare la  realizzazione di parte dell'attrezzatura fotografica  presumibilmente assemblando macchine composte di parti acquistate da altri fabbricanti. Ma subito dopo si dedicò esclusivamente alla produzione e al commercio di attrezzature fotografiche. Il nome della ditta venne abbreviato in Ihagee Kamerawerk. Riguardo ai primi passi mossi dalla neonata Ihagee e alla sua produzione, purtroppo sappiamo molto poco . Una delle prime macchine prodotte fu la Photorex, una macchina a soffietto di tipo classico, con otturatore Compound. E' presumibile che in quel periodo ci siano stati dei rapporti commerciali e forse di cooperazione con la ditta Mono-Verk con sede in Magdeburgo poiché vi è notizia di una versione della fotocamera Mono Minax del 1914 che riporta la dicitura Ihagee sul corpo macchina. Allo scoppio della prima grande guerra 1914-1918 la ditta subì una forma di rallentamento forzato dovuto alla richiesta dell'esercito che chiamava alle armi la cittadinanza tedesca e, di conseguenza, anche gli impiegati e gli operai della Ihagee. Steenbergen che nel frattempo era tornato in Olanda, da dove amministrava ora i suoi interessi, continuava a veder crescere il giro di affari della sua attività che, dopo la fine del primo conflitto mondiale, aveva notevolmente ampliato il proprio raggio d'azione ed acquisito importanza nel panorama industriale tedesco. Così il giorno 11 dicembre del 1918 la Offene Handelgeselleschaft Ihagee Kamerawerk Steenbergen & Co. fu iscritta al registro commerciale di Dresda. Contemporaneamente la dirigenza Ihagee si risolse, nel 1919, a trasferire la propria sede in un edificio più consono alla rinnovata produttività, pur rimanendo a Dresda. E la ditta venne trasferita in Gottfried Kellerstrasse 85. Contestualmente a questa nuova consapevolezza di accresciuta maturità della propria fabbrica, Steenbergen decise di iniziare la produzione di una macchina di legno ideata da lui stesso. Nel corso degli anni la Ihagee ha realizzato numerose macchine , in legno e metallo, a soffietto, del tipo definito Klapp, a lastre o per rullo. Tra i modelli più fortunati ricordiamo la Ultrix che era una fotocamera a soffietto di tipo classico che utilizzava il rullo 120 e la bella Parvola, un soffietto di piccole dimensioni che impressionava la pellicola in rullo 127. Ad ogni modo sul corpo macchina mai era riportato il nome della fotocamera, ad eccezione del modello Paff. Ciò cambiò nel 1933 con l’avvento dell’Exakta  con il suo formato 6,5 x 4 (non 6 x 4,5) su pellicola. Il successo ottenuto dalla fabbrica di Steenbergen era comunque in continua crescita sia per la schiera di fotoamatori che apprezzavano i prodotti sia per la qualità offerta dagli stessi così che i fabbricati risultavano troppo piccoli e nel 1923 venne deciso un altro trasferimento. Fu realizzato un grande impianto nel distretto di Striesen in Schandauerstrasse 24, a Dresda, dove già  producevano la Ernemann e la Ica. La fabbrica aveva una superficie di circa 5580 mq e si sviluppava su tre piani e impiegava centinaia di lavoratori. Ciò accresceva la fama di Steenbergen che, per i suoi meriti, fu nominato Console onorario nel 1929 in rappresentanza dell’Olanda. Il 28 giugno 1930 ricevette la visita del principe d’Olanda Hendrik (nonno della regina Beatrice) che visitò il consolato e la fabbrica.  Steenbergen  provvedeva anche  a pubblicare depliants pubblicitari e note informative: in seguito di ciò si interessò Wermer Wurst che nel 1928 era entrato a far parte della Ihagee . Anche se aveva iniziato come apprendista egli aveva studiato alla scuola tedesca di fotografia e divenne in seguito un manager del dipartimento della pubblicità. Egli divenne famoso per il libro Exakta Klieinbild-Fotografie ristampato 11 volte e per molte altre pubblicazioni sull’ Exakta e sulla fotografia in generale. Dal momento che la Ihagee aveva numerato tutte le macchine in ordine sequenziale e il numero sequenziale delle Exakta partiva dal 400.000 la ditta aveva probabilmente prodotto tante macchine nei primi 21 anni della sua esistenza. Ad ogni modo è risaputo che la fabbrica produceva circa 3000 macchine al mese con un  personale di circa 660 operai negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della seconda guerra. La Ihagee quindi divenne famosa con la fotocamera Exakta anche se  questa non può essere considerata la prima reflex realizzata dalla Ihagee, poichè già nel 1920 era stata prodotta la Paff, una box camera reflex monobiettivo. E poi ne erano state prodotte molte altre precedentemente anche da altre ditte. In cosa sta allora la carica innovativa di questa celeberrima macchina fotografica? Innazitutto dobbiamo distinguere tra l'Exakta Standard (definita anche VP dal nome del tipo di pellicola che utilizzava Vest Pocket Kodak ) e la Kine Exakta. Occupiamoci dapprima della Exakta Standard . Questa fotocamera venne presentata alla Fiera di Lipsia del febbraio del 1933, dopo che la produzione era iniziata nel 1932. Le sue caratteristiche salienti fanno capire subito che si tratta di qualcosa di innovativo. La macchina presentava uno specchio a 45°, un mirino a pozzetto pieghevole, la sua forma trapezoidale le assicurava una discreta ergonomia rendendola facilmente maneggevole e, oltretutto, utilizzava la pellicola 127 che all'epoca era largamente usata (la si può reperire anche oggi presso alcuni negozi specializzati). Si trattava sicuramente di qualcosa di veramente originale in un panorama fotografico dominato dalle Leica e dalle Contax. Il successo fu immediato e i primati che vanta la piccola di Dresda sono diversi. Tra questi: 1) l' Exakta può essere definita la prima fotocamera monobiettivo di tipo moderno che utilizzava pellicola in rullo; 2) l' Exakta vanta un otturatore sul piano focale che va da 12" fino ad 1/1000"; 3) l' Exakta adotta la leva di avanzamento dieci anni prima delle rivali; 4) l' Exakta vanta un sistema che consente l'utilizzo del flash collegato all'otturatore. Di questa fantastica fotocamera sono stati prodotti diversi modelli e anche le singole versioni sono state differenziate tra loro per piccoli accorgimenti tecnici. Per chiarezza e praticità vengono distinti nei seguenti modelli: Modello A del 1933 elaborato in 5 versioni, Modello B del 1933 elaborato in 7 versioni; Modello C del 1935 elaborato in 3 versioni; Modello definito Night Exakta del 1934 elaborato in 4 versioni; Modello definito Exakta Junior del 1936 elaborato in 3 versioni. A questa serie di fotocamere venne affiancata una diversificata offerta di ottiche intercambiabili che ne aumentavano considerevolmente la versatilità (particolare che ha sempre contraddistinto la produzione Exakta) e di accessori per diversi tipi di impiego sia amatoriale che professionale. Queste caratteristiche (comuni in un certo senso anche alla produzione Contax della Zeiss Ikon) hanno fatto sì che l'Exakta si imponesse come una macchina fotografica universale. La Kine Exakta, progettata e realizzata da Karl Nüchterlein  con l’assistenza di Otto Helfricht e Rudolf Groschupf, manteneva inalterate tutte queste caratteristiche ed offriva in più una particolarità che verrà apprezzata maggiormente nel corso degli anni: il fatto che utilizzava la pellicola 35mm. Questa leggendaria fotocamera venne presentata alla fiera di Lipsia del 1936, soltanto un anno dopo la realizzazione di un'altra macchina storica, la Gomz Sport, che detiene con essa il primato di rappresentare la prima reflex 35 mm della storia. Infatti, da un punto di vista esclusivamente temporale, il primato andrebbe alla macchina russa che, sembra essere stata commercializzata fin dal 1935 nella sola Unione Sovietica. Le fonti a tal riguardo non sono particolareggiate, in pieno stile sovietico (basti pensare che fino alla caduta del muro di Berlino era perlomeno improbabile poterne visionare qualche esemplare). Ma da un punto di vista commerciale inteso in senso di fruibilità da parte del mondo della fotografia,  la Gomz Sport non poteva competere con la versatilità della Kine Exakta. E questo per varie ragioni. Innanzitutto il limitato numero di esemplari prodotti che relega la macchina sovietica al ruolo quasi di prototipo, poi l'area geografica di appartenenza che limitava la diffusione della stessa, ma anche l'inesistenza di ottiche dedicate anche se la macchina era predisposta in tal senso e la mancanza completa di accessori. Tutto il contrario della fotocamera tedesca: questa vantava un corredo di ottiche originale Ihagee ma anche di tutta una serie di produttori anche esteri, la possibilità di essere impiegata in qualsiasi ramo di utilizzo (dall'amatoriale allo sportivo, al giornalismo alle applicazioni scientifiche) grazie ad una smisurata serie di accessori dedicati. Per questa serie di motivi è giusto riconoscere alla Sport solo il primato storico cronologico che però si esaurisce con la vita del modello stesso (limitatamente a pochi anni). Nulla a che vedere con l'innovazione e le potenzialità pratiche della Kine che, evolvendosi ma rimanendo praticamente la stessa per circa 40 anni, ha dato vita alle magnifiche Varex degli anni sessanta. Ma torniamo alla Kine Exakta. Questa fotocamera appariva, alla sua presentazione, come una macchina originale, pur percorrendo la linea caratteristica della Exakta Standard, ma con un mirino a pozzetto che includeva una lente di ingrandimento di tipo circolare che facilitava notevolmente la messa a fuoco. Altra caratteristica peculiare introdotta dalla Kine era la taglierina introdotta nel corpo macchina ed azionabile dall'esterno grazie ad un piccolo pomello posizionato sul fondo. Ciò consentiva di risparmiare sul film non esposto. Per il resto il posizionamento della leva di carica rimaneva sulla sinistra, così come il pulsante di scatto (tipico di tutte le Exakta) e la ghiera dei tempi lenti a destra. I tempi andavano da 1/25" a 1/1000" + B e T. Questo primo modello, denominato per comodità Versione 1 (round magnifier) del 1936 venne aggiornato l'anno successivo dalla Versione 2 (rectangular magnifier) diversa per la forma dell'oculare posto sopra il pozzetto. Nel 1937 venne anche prodotta una serie, denominata Versione 3 che recava la dicitura Exacta (la cosiddetta "C" spelling) destinata prevalentemente al mercato statunitense. Nel 1938 venne introdotta poi la Versione 4 che è l'ultima di quelle precedenti il secondo conflitto bellico. Le Kine prodotte prima della guerra riportano tutte la scritta Ihagee sul dorso. Dopo la guerra, nel 1948, venne introdotta la Versione 5 anch'essa con la dicitura Exacta (la cosiddetta "C" spelling). Da questo momento in poi venne avviata la linea Exakta II che si evolse in seguito nella Exakta Varex (1950), Exakta V (1950), Exakta VX (1951-56), Exakta Varex IIa ((1957-62), Exakta Varex IIb (1963), Exakta Varex 1000 (1967) Exakta Varex 500 (1969).  Ma la storia dell'Exakta non si esaurisce qui. Infatti con questo nome venne prodotta anche, nel 1938 e per un breve periodo, una rivoluzionaria medio formato che ispirò negli anni successivi fotocamere del tipo Praktisix, Penatconsix, Kiev 60, Pentax 6x6. Si trattava di una reflex maggiorata, denominata Exakta 66, che utilizzava il rullo 120 e da cui si ottenevano fotogrammi di formato 6x6 cm. Ricordava in tutto e per tutto una Exakta Standard,  tranne che per la caratteristica leva di avanzamento posizionata sul fondo del corpo macchina. Per il resto solo le dimensioni, adatte a ricevere un rullo di pellicola 120, la facevano differire dalla storica antesignana. Con lo stesso nome venne prodotta, nel dopoguerra, un'altra medioformato dalla forma inconsueta e con magazzino intercambiabile. Ma, come è già stato accennato, l'irrompere del secondo conflitto bellico interruppe definitivamente la produzione di questo modello. Infatti la seconda guerra mondiale e la società nazista della Germania influirono enormemente sull'intera produzione della Ihagee. Il 15 gennaio 1940 infatti venne promulgata una legge che regolamenta i beni siti in territorio germanico appartenenti a cittadini stranieri di nazioni nemiche. Ciò comportava che questi non potevano disporre più dei loro beni in patria. E, per forza di cose, tale provvedimento venne subito applicato anche nei confronti di  Steenbergen e di sua moglie che, nel maggio 1940 vennero arrestati per un breve periodo (probabilmente in seguito anche alle discriminazione razziali dal momento che la moglie di Steenbergen era ebrea) e poi rilasciati così che poi partirono per gli Stati Uniti dove si stabilirono nel 1941. Le loro proprietà vennero confiscate e il 26 agosto del 1940 e tutti i dirigenti della  Ihagee vennero sostituiti da uomini d'affari imposti dal nazismo. La fabbrica  venne così asservita alle esigenze della Wermacht fino a che non venne completamente distrutta durante i bombardamenti aerei su Dresda il 13 febbraio 1945.  Potremmo dire che la storia della Ihagee a questo punto si interrompe, ma non termina. Infatti nel successivo dopoguerra la ditta si ricostituisce in quella che nel frattempo era divenuta la Germania dell'Est. Qui si ricomincia a produrre l'Exakta II del tutto simile agli ultimi modelli della Kine finchè nel 1950, con l'introduzione della Exakta Varex venne consentita la possibilità di intercambiare il mirino che fino a quel momento era disponibile solo come pozzetto. Ora si poteva scegliere di sostituirlo con il pentaprisma. Le caratteristiche della Exakta Varex faranno da guida per circa un ventennio per tutta la produzione che seguirà, evolvendosi nelle famose Exakta Varex IIa, Exakta Varex IIb, Exakta Varex 1000 ed Exkta Varex 500. Questi sono gli ultimi veri prodotti Ihagee che, negli anni '70, dovranno cedere il passo all'esuberante produzione giapponese. Da ricordare che, sempre a partire dai primi anni '50 all'Exakta venne affiancato un modello più economico ma completamente compatibile ed intercambiabile con essa: la Exa. Questa, realizzata in diverse versioni, vantava un corpo macchina più piccolo, ma lo stesso innesto obiettivi, la possibilità di intercambiare i mirini e tutti gli accessori che avevano fatto grande la sorella maggiore Exakta. Oggigiorno queste macchine sono abbastanza ricercate e offrono ancora la possibilità di fotografare con piacere e con ottimi risultati ad un costo davvero contenuto.


La Nippon Kogaku


Il successo dell’industria fotografica giapponese è cosa recente, ma un cenno soprattutto per la Nippon Kogaku è doveroso.

L’industria giapponese, che ha iniziato copiando a man bassa la produzione tedesca, è oggi diventata leader  nel settore fotografico e, è curioso dirlo, viene oggi copiata dagli antichi maestri tedeschi. Il Giappone ha saputo negli anni del secondo dopoguerra approfittare di una situazione estremamente favorevole per la produzione in grande serie grazie ai bassi costi della manodopera che hanno consentito di esportare in tutto il mondo apparecchi di qualità a prezzi bassissimi.  Ma negli anni Settanta il Giappone si viene a trovare in una situazione simile a quella attraverso la quale l’Europa ed il mondo occidentale sono passati in precedenza: i costi di produzione sono aumentati enormemente e i prodotti, sempre più sofisticati, non sono più così economici come una volta. Nel 1959 la Nippon Kogaku presentò il suo modello reflex 35mm Nikon F che, non più in produzione, conta ancora una certa quantità di appassionati. Pur derivando da un modello precedente della stessa casa: la Nikon S a telemetro, la Nikon F può definirsi discendente dall’idea Contax. Infatti è proprio dalla Nikon S che gli ingegneri della Nippon Kogaku hanno saputo creare il primo apparecchio reflex a sistema, un apparecchio che grazie ad una grande intuizione può vivere ancora oggi al centro di un sistema di obiettivi ed accessori tra i più vasti. Dalla Nikon S, il modello reflex ha ereditato molte soluzioni tecniche ancora validissime e che dimostrano come l’ultima fotocamera a telemetro della Nikon fosse un apparecchio davvero d’avanguardia. Nella F sono stati utilizzati il sistema di avanzamento e carica dell’otturatore della S, il dorso asportabile con apertura a chiavetta, il sistema di cuscinetti a sfera su cui sono fissati gli assi dell’otturatore, le tendine in titanio, il contatto caldo per lampeggiatori compatti, il dorso con motore elettrico e molte altre soluzioni ancora. L’idea dell’intercambiabilità, che oggi regna sovrana, è un’idea Nikon; basi pensare al sistema di visione della Nikon F che nel 1960 era già dotato di vetri di messa a fuoco intercambiabili, di mirini di diverso tipo, è oggi non solo ancora valido ed incrementato, ma utilizzato da vari altri fabbricanti. Il sistema di visione reflex degli apparecchi moderni non è diverso nel principio dalla camera oscura. In una moderna reflex 35mm i raggi di luce che passano attraverso l’obiettivo vengono intercettati da uno specchio posto a 45° che li riflette in alto sullo schermo di messa a fuoco. Questo schermo, che serve appunto per la messa a fuoco dell’immagine e per l’inquadratura, deve trovarsi ad una distanza dall’obiettivo identica a quella esistente tra obiettivo e piano focale. Solo se queste misure sono precise al decimo di millimetro l’immagine che viene messa a fuoco sullo schermo risulterà a fuoco anche sul fotogramma una volta sviluppata la pellicola. Sui primi apparecchi reflex la messa a fuoco si effettuava sullo schermo posto orizzontalmente nella parte superiore e protetto dalla luce da quattro antine paraluce che consentivano di osservare più chiaramente l’immagine. Nei primi apparecchi reflex la messa a fuco andava eseguita dall’alto in modo non troppo confortevole, Soltanto nel 1950 apparve la prima reflex dotata di un dispositivo prismatico, il pentaprisma, che consentiva di osservare lo schermo di messa a fuoco tenendo l’apparecchio all’altezza dell’occhio: era la Contax SA. Grazie al pentaprisma veniva risolta anche un’altra questione: quella dell’immagine coi lati invertiti dovuta all’utilizzazione dello specchio. Con il pentaprisma l’immagine visibile attraverso l’oculare ritornava corretta, la destra era destra e la sinistra sinistra. Dai primi apparecchi reflex  35mm ad oggi l’evoluzione è stata notevole. Nel 1960 la Nikon F era dotata di un sistema di mirini intercambiabili e di schermi di messa a fuoco invidiabile. Per semplice curiosità  e per rendere l’idea di quanto possa essere complicata la costruzione di una macchina fotografica come la Nikon F si evidenzia il fatto che questo apparecchio è composto di 918 pezzi.


Il resto è storia dei nostri giorni.